Matteo “attivissimo” e l’Italicum che salverà l’Italia (Mah..?… Chissà)

L’attivismo di Matteo Renzi crea la sua estetica, lo stile dove, più che “cambiare verso”, si “corre verso” una nuova Italia. Veloce, velocissimo, il neosegretario PD se ne compiace: “Veni, vidi, vici”, il Cesare delle battaglie è un treno accelerato di fronte al piglio decisionale che oggi percuote la penisola.

A noi, di un’altra generazione, non resta che un’osservazione attenta dell’elettroencefalogramma renziano, dato che crediamo che un’azione più rapida del pensiero non sia alla fine del tutto desiderabile.

Ci chiediamo se l’Italicum sia un buon accordo, indipendentemente dalla velocità del parto e se la rilegittimazione di Berlusconi sia il giusto prezzo da pagare in vista di quale vantaggio. Prima di tutto, cos’è una buona legge elettorale: dal punto di partenza deriva inevitabilmente la conclusione.

Come legge elettorale, lo schema approvato da Renzi e Berlusconi, con Alfano di rinterzo, dovrebbe rispondere non alle esigenze privatistiche dei partiti, o dei suoi leader, ma alla visione del bene comune.

Per questo, una buona legge elettorale non può valutarsi dal punto di vista transitorio del singolo partito, ma dalla rispondenza dell’interesse generale della comunità. Quali sono gli “interessi generali” che una buona legge elettorale dovrebbe tutelare?

Apparentemente, sembrano tutti d’accordo. In democrazia, si tratta prima di tutto di consentire a ciascuno di esprimere la propria volontà politica, tanto più nella rappresentanza parlamentare, dove il cittadino si pronuncia per poi lasciare che l’eletto lo rappresenti senza più intervenire. La “purezza” della rappresentanza, quindi, ma non basta.

In molti si chiedono che farsene di un meccanismo proporzionale se porta alla paralisi assembleare. È una preoccupazione legittima, dato che si eleggono i rappresentanti per guidare la comunità e non per specchiarvisi. D’accordo sul secondo requisito, non tardano distinzioni e antagonismi.

Sempre per quei molti, solo una legge che affermi, anzi imponga, il bipolarismo, per non dire il bipartitismo, è in grado di garantire e rappresentanza e governabilità. E solo una legge che predetermini una maggioranza corposa attorno al partito egemone garantisce il governo.

Su questi punti, qualche dubbio: il Porcellum, che pure ha generato la più ampia maggioranza a memoria dal ’45 a oggi, non ha resistito alla tempesta politica “esterna”, mentre nella prima repubblica il variare continuo dei governi consentiva un adeguamento molecolare al cambiamento delle sensibilità sociali, pur tra “impure” dinamiche partitiche.

Insomma, dal dopoguerra al crollo del Muro di Berlino, la legge proporzionale non ha impedito una sostanziale stabilità politica, mentre dal ’92 a oggi, la legge maggioritaria, diversamente articolata, non ha impedito instabilità e degenerazione.

Questi dati spingono a dubitare della correttezza intrinseca del meccanismo elettorale, e a interrogarsi sulla sua capacità di interpretare il sentire sociale e culturale, la dinamica politica più ampia e significativa.

Quale è la più rilevante questione strategica che, come un iceberg, si interpone tra il desiderio di cambiamento e la sua realizzazione?

Per le semplificazioni in voga, il “mostro” sono i cosiddetti partitini, le aggregazioni che impongono capricci e privilegi alla maggioranza, qualsiasi essa sia. Personalmente ho molti dubbi e non per il fatto di non vedere il fenomeno, nato peraltro per mano del maggior decisionista della Repubblica, Bettino Craxi.

Piuttosto, il maggior ostacolo al cambiamento risiede nella deriva populista ed eversiva che la vicenda di Silvio Berlusconi ha imposto al nostro Paese.

La sua capacità di fare leva su vizi storici della costruzione socio politica italiana, ha imposto, con la tutela dei suoi interessi personali, uno statuto della nostra destra tanto lontano dai caratteri dalla destra istituzionale europea.

Il fallimento della sua politica, la tregenda del 2011, l’instabilità che ne derivò, non trovano alcuna spiegazione nel mito dei partitini ricattatori, ma piuttosto nell’inadeguatezza di una visione del benessere comune basata sulla somma degli interessi particolari.

Il faticoso, lacerante, distaccarsi dal grembo della sua egemonia, di singoli pezzi e personalità ha testimoniato la necessità di una rifondazione del “sentiment” della destra: Fini, Casini, Monti, Alfano, ciascuno a suo modo, ha creduto di non poter più condividere quella egemonia politico culturale.

Ma se questo fenomeno disgregatorio, così arduo e contraddittorio, è premessa del rifacimento della destra su nuove coordinate etico politiche, vale la pena di chiedersi se l’Italicum sia viatico o pietra tombale sul processo virtuoso nascente.

Che un Casini si affretti a dichiararsi pronto al ritorno nel “grembo materno” certifica il potenziale distruttivo della futura legge elettorale su di un potenziale schieramento di destra europea che la sinistra avrebbe tutto l’interesse a promuovere.

In un déjà vu inquietante, s’intravede il fantasma di Walter Veltroni, che certo riempì di entusiasmo le piazze, e di voti il cesto del PD, ma attorno creò il vuoto per infine assistere al trionfo berlusconiano del 2008.

Alla fine del ragionamento, purtroppo assai pessimistico, il cerchio sembra stringersi: per fare velocemente una legge elettorale, abbiamo riabilitato Berlusconi, donandogli anche il cappio con cui strangolare i suoi concorrenti.

Un’unica speranza: che davvero Matteo Renzi riesca a vendersi agli elettori del centro destra come una valida alternativa a Berlusconi. Non è molto, ma come si dice “piutost che nient, l’è mei piutost“.

Giuseppe Ucciero
(arcipelagomilano.org)

I commenti sono disabilitati.