Segreti dei santi – Da raccontare solo a pochi intimi…. Una lezione ricevuta attraverso Anasuya Devi

Ognuno ha i propri segreti, esperienze che si tengono celate per non offuscare l’immagine di sé, oppure per evitare che ci siano dei fraintendimenti inopportuni. Ad esempio oggi mentre mi trovavo nella grotticella, dedicata ad Amma, la mia madre spirituale, ed al Dio Ganesh, mi è capitato di rileggere la storia di Mansur Mastana un santo sufi che avendo ottenuto l’esperienza del Sé, lo dichiarò pubblicamente affermando “Ana’l-ahqq” che significa “Io sono Dio”. Ovvio che in una religione dualistica come quella musulmana tale affermazione fu presa per eresia e Mansur fu condannato a morte. Ma anche sul patibolo egli rideva e continuava ad affermare “la verità” della sua esperienza ma gli altri non potevano capire e semplicemente pensarono che fosse impazzito e comunque meritevole di morte. In seguito i sufi s’intesero fra di loro che in futuro sarebbe stato meglio non affermare pubblicamente tale verità, che anche quando fosse stata raggiunta era meglio uniformarsi alle convenienze essoteriche, lasciando le verità esoteriche nel cerchio ristretto degli iniziati.

Questa premessa per dirvi che a volte ci possono essere esperienze spirituali che non è bene divulgare, poiché potrebbero essere fraintese o creare confusione nella mente degli ascoltatori. Per questa ragione in tutte le scuole iniziatiche si proibisce esplicitamente di farsi belli con i miracoli, le visioni, gli insegnamenti ricevuti e quant’altro. Però, però… stavolta vorrei trasgredire la regola. Ormai la lezione ricevuta è stata da me metabolizzata e credo che –sia pur nel rischio di una malinterpretazione- sia per me giunto il momento di raccontarla. In effetti non è un’esperienza di cui andare orgogliosi, dimostra solo la “piccolezza” dell’io, ma questo aspetto è importate per significare che non occorre uniformarsi ad un “modello” di santità idealistica, che ci fa apparire santi a tutti i costi, ma che è sufficiente poter sorridere e passar sopra alle proprie deblacles considerandole normali avvenimenti sul cammino, in cui talvolta si inciampa per rialzarsi e proseguire.

Dovete sapere, forse già lo sapete, che questo personaggio Paolo D’Arpini è nato l’anno della Scimmia ed è perciò profondamente convinto di essere il meglio in ogni campo o per lo meno si atteggia ad esserlo. Ma siccome ha il Legno (amore, empatia) come elemento principale, manifesta questa sicumera attraverso i sentimenti. Poi c’è il Metallo che rende codesto scimmiotto alquanto giusto ed il Fuoco che gli fa vedere le cose per quel che sono, anche se lo rende un po’ troppo “intelligente” (diciamo pure astuto). Il risultato? Quando da giovane scrivevo poesie lo facevo con impegno amoroso, magari cercando di conquistare con quelle dolci parole le ragazze che altrimenti non mi avrebbero filato (visto che non sono un granché). Siccome poi non mi piace la competizione violenta mi ero specializzato nel poker in modo da dimostrare la mia superiorità con il gioco d’azzardo (questo mi ricorda un po’ il tragitto di Siddharta). Inoltre, per quanto riguarda la giustizia, chi mi conosce sa quanto sia un Don Chisciotte contro i mulini a vento, e per l’intelligenza la riprova sta in questa capacità (messa in pratica ora) di raccontare storie ed aneddoti che sanno pure affascinare….

Insomma in tutti gli aspetti della vita, le caratteristiche psichiche e gli aspetti elementali si manifestano secondo la loro natura e non c’è nulla da fare in ciò, succede e basta! Ovviamente questo vale anche nella dimostrazione della mia “santità”, quando si tratta cioè di fare quella parte, debbo in qualche modo dimostrare un’eccellenza od unicità.

Ad esempio il mio voler dare uno specifico ed esclusivo nome all’esperienza interiore, da me definita “spiritualità laica” è uno dei miei vezzi ormai riconosciuti.

La comprensione del significato “spiritualità” appartiene in verità all’intelletto mentre il “cuore” non darebbe alcun nome, al massimo sarebbe una “meraviglia di sé” (gli inglesi dicono bene con la parola “awe”). Dare una definizione ed un significato all’esperienza è già separatezza, dualismo, ma il “cuore” accetta solo l’unione, semplice fioritura, e non comprende la “descrizione” di tale fioritura. Eppure è sotto gli occhi di chiunque che io continuo a parlare di “spiritualità laica” come un giusto modo di esprimere l’integrazione e la realizzazione, avendolo reso persino un “filone”…. Scusatemi per questo imbroglio scimmiesco!

Oggi sono in vena di confessioni e mi pare giunto il momento di raccontare un fatto vissuto tanti anni fa, quando stavo a Jillellamudi con Amma, la mia madre spirituale Anasuya. Dovete sapere che Anasuya è l’incarnazione della verità (come quel Mansur Mastana di cui sopra), ma lei era molto modesta diceva “non c’è differenza fra voi e me” “io sono voi e voi siete me” “i miei attaccamenti mondani sono molto superiori ai vostri voi siete attaccati agli amici, ad una famiglia, io sono attaccata a tutti voi”… Il significato di Anasuya è “una che è aldilà dell’invidia e della gelosia” ed infatti come poteva essere invidiosa o gelosa quando riconosceva se stessa in tutti ed in tutto ciò che esiste? Cosa significa per Anasuya essere più belli, più brutti, più bravi o più furbi? E perciò Anasuya non manifestava alcuna qualità diversa da quelle che le erano proprie, che facevano parte delle caratteristiche innate con le quali era nata. In ogni caso erano le qualità di una “incarnazione” della verità, come d’altronde ognuno di noi…. E le sue lezioni erano dolci e sublimi, crudeli, a volte, ma piene di nettare.

Vi racconto una di tali lezioni “materne” da me allora vissuta.

Avevo preso l’abitudine da alcuni giorni di recarmi sulla costa, da cui Jillellamudi dista una ventina di miglia, per restarmene in meditazione solitaria di fronte all’oceano. Un giorno mi trovavo in bicicletta pedalando per andare alla spiaggia. Chi di voi conosce le vecchie bici indiane sa che sono macchinari impossibili, altissime e con grandi ruote, una volta salito in sella e partito non è facile fermarsi o compiere acrobazie. Per cui procedevo spedito sgattaiolando senza mai fermarsi fra altri velocipedi, risciò e pedoni.

“Chi si ferma è perduto” dice un vecchio adagio ed infatti cercavo di non fermarmi mai lungo il periglioso percorso. Già un paio di volte alla periferia di Bapatla, la cittadina che dovevo attraversare prima per raggiungere il mare, avevo notato una capannuccia minuscola dalla quale usciva un filino di fumo, davanti alla quale stazionava una vecchietta male in arnese, forse aspettava qualcuno o chiedeva l’elemosina, non so. Nel frattempo dopo alcuni passaggi di andata e ritorno avevo appurato che la vecchietta era in realtà una lebbrosa, con le mani mangiate dalla malattia ed anche alcune parti del volto. Non mi ero mai fermato sia per la mia difficoltà nel pilotare il velocipede ed –ovviamente- anche per la reticenza ad affrontare una situazione alquanto “anomala” per me. Non avevo però potuto ignorare quella presenza, e ricordarmi delle storie di Gesù, di San Francesco, di Madre Teresa di Calcutta e di tutti gli altri santi che curavano e benedicevano i lebbrosi e gli appestati. Insomma la mia “santità” veniva solleticata ed anche la tentazione di dimostrare a me stesso (e di conseguenza al mondo) che non ero inferiore agli altri santi, mi spinse una bella mattina ad arrestare il biciclone (quasi perdendo l’equilibrio) davanti a quella vecchia signora.

Avevo in tasca alcune rupie e ne diedi una alla donna, poi mi ricordai di un’altra banconota da due rupie decrepita e forse anche falsa che mi era stata appioppata da qualcuno e mi dissi “tanto io non potrei mai spendere queste rupie, perché nessuno dei negozianti le prenderebbe, tanto vale darle a questa donna, magari lei riesce a spenderle…” e così feci. La vecchietta mi ringraziò con le mani giunte, anch’io la salutai compito (a distanza di sicurezza) e rimontai in sella partendo a sbalzelloni.

L’immagine di me, che mi ero costruito, era comunque “bellissima” già mi vedevo raccontare l’avventura agli amici di Calcata, con tanto di descrizioni del marciume della carne della povera vecchia, del mio sprezzo del pericolo, etc. Trascorsero alcuni giorni in cui non passai più di là, finché una bella mattina eccomi di nuovo su quella strada e davanti alla capanna c’era la lebbrosa a sbracciarsi, mi si piazzò quasi di fronte alla bici, facendomi perdere l’equilibrio e costringendomi ad una brusca frenata.

Pensai un po’ scocciato “ma che vuole ancora questa? Non le è bastata l’elemosina dell’altra volta?”. La donna mi costrinse ad entrare nella sua capannuccia dove non si stava quasi in piedi e dove lo spazio era appena sufficiente per due persone affiancate e per un giaciglio che stava lì dappresso. Io mi sentivo molto a disagio e debbo dire che provai anche timore non sapendo come muovermi o comportarmi. La donna estrasse da una sua sacchetta, con lentezza che trovai estrema, un qualcosa di arrotolato, e me lo porse… era la banconota da due rupie… Compresi allora che neanche lei era riuscita a “spenderle” e quindi me le restituiva…. Non ebbi il coraggio di riprendermi quel pezzetto di carta che oltre che falso ora mi sembrava anche “infetto”… Altro che sublimazione ed imitazione di Gesù, San Francesco, etc. etc. mi ritrovavo lì, scimmiotto furbetto, ad essere ripagato con la mia stessa moneta…

Offrii alla lebbrosa un’altra banconota da due rupie, in buone condizioni, mi scusai a gesti con lei e scappai il più velocemente possibile dalla scena e per un bel po’ smisi di andarmene a “meditare” sulla spiaggia, in bicicletta.

Vi è piaciuta questa storia?

Paolo D’Arpini

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Destino concluso o libero arbitrio? Domanda delle domande, risposta delle risposte… auto-indagine in termini di spiritualità laica – Con annotazioni di Anasuya Devi e Ramana Maharshi

Ci si pone una domanda, da dove sorge? Diamo una risposta da dove è venuta?Ora, ad esempio, son qui che mi interrogo sulla realtà del manifestarsi della nostra vita. Essa è compiuta da un insieme di forze ed elementi congiunti che si combinano secondo loro leggi, o dettami del caso, oppure è il risultato di un agire volontario che cerca in tutti i modi di forgiarne forma e contenuti? Questo investigare è alla base di ogni concettualizzazione ed azione fisica o metafisica… Nel tentativo di capire la natura del nostro pensare ed agire si sono già interrogati gli uomini che ci hanno preceduto e sarà così per quelli a venire…. E la risposta?

Questo testo, ad esempio, che io sto scrivendo e che tu leggi (presupponendo che qualcuno lo legga..) da dove nasce? Le idee in esso contenute come hanno potuto affiorate nella mente, come sono condivise e comprese dall’ipotetico lettore? Il lettore comprende la tematica quindi significa che egualmente si è posto il dilemma… In ogni caso è codesto scritto il risultato di una libera scelta, un elaborato con un intento preciso, derivante da un processo volontario, da una decisione di mettere in atto l’azione del pensare e dello scrivere? O piuttosto è conseguenza di una serie di impulsi auto-generati che si uniscono sino a formulare quest’articolo?

Seguendo un ipotetico processo razionale, di primo acchitto, sarei portato a rispondere che sì, questo scritto è frutto della mia decisione, è il risultato di un mio personale ingegno compositorio che prende questa forma descrittiva, impiegando le figure di un ragionamento filosofico…

No, non ne sono sicuro… Non ne sono sicuro perché “capisco” od intuisco che il mio ragionamento è definibile solo dopo che spontaneamente e senza alcuna intenzione da parte mia è apparso nella mia mente. E’ “apparso” e da dove? Il meccanismo della comparsa dei pensieri è un aspetto sconosciuto ed in conoscibile, essi sorgono da un non si sa dove…. Solo in seguito al loro presentarsi dinnanzi alla nostra coscienza possiamo affermare “ho pensato a questo…”. Insomma facciamo nostri i pensieri dopo che ci son venuti incontro dal nulla, li possediamo come qualsiasi altro oggetto che chiamiamo nostro (pur essendo in realtà della terra)… ed allora il senso del possesso è solo indicazione continuata d’uso, un uso comunque limitato nel tempo e nella qualità del suo godimento… Ogni cosa che definiamo “nostra” o nella quale ci identifichiamo, come “il mio corpo” -ad esempio- o “la mia mente” è in verità nostra solo per una consuetudine di impiego e di presenza. Quando sogniamo siamo avvezzi ad identificarci con uno dei personaggi del sogno e percepiamo questo personaggio come un “me” che si rapporta con altri personaggi operanti in un mondo, tutto il sogno in realtà si presenta davanti alla nostra coscienza e su di esso non abbiamo alcun controllo operativo, anche se, come nello stato di veglia, riteniamo di agire con uno scopo, ottenendo risultati oppure fallendo nell’ottenerli.

Dico “come nella stato di veglia” per inserire una rapida analogia comparativa con la realtà del nostro operare da svegli…. Chiamiamo il nostro agire nel mondo il risultato di un libero arbitrio e ce ne facciamo, di fronte a noi stessi ed agli altri (esattamente come nel sogno), responsabili, accettiamo lo sforzo del tentativo di raggiungere uno scopo, ci sentiamo frustrati se falliamo nel conseguimento, consideriamo che le nostre azioni sono legate ad un processo di causa ed effetto, ci arabattiamo nel cercare di prefigurarci un fine, per poi eventualmente pentirci e cercare il suo contrario.

Le religioni hanno utilizzato questo processo del divenire e dell’instabilità della mente e del desiderio di un risultato (immaginato come stabile e definitivo ma vano) per ordinare la vita di ognuno in termini di “responsabilità diretta” con successivo premio finale in veste d’inferno o di paradiso.

Nel dualismo religioso, sociale, o ideologico, nella separazione dal Tutto, l’unica cosa che si può fare è cercare di ottenere buoni risultati utilizzando la propria volontà, da noi definita libera scelta, illudendoci così di pervenire a qualche esito che ingenuamente definiamo la “risposta” alla nostra ricerca materiale e spirituale. Premio e castigo sono nelle nostre mani… e con questo peso sul groppone “commerciamo” e “speculiamo” con e su Dio –se crediamo il lui- oppure con la Natura e le leggi della giungla –se siamo atei materialisti- oppure facciamo come i superstiziosi che dicono “non è vero … ma ci credo!” finendo un po’ di qua ed un po’ di là della barricata immaginaria, o magari, come spesso avviene alla maggioranza di noi, cercando tout court di dimenticare il problema immergendoci nella soddisfazione delle esigenze e necessità quotidiane.

Ma l’enigma ritorna…. È un qualcosa di sconosciuto ed in conoscibile che torna a perseguitarci… Alla fine diamo la colpa agli Dei ed alla forza del destino! Infatti noi osserviamo per esperienza diretta che alcune cose che abbiamo intenzione di raggiungere ci sfuggono, mentre altre che aborriamo accadono.

“Possiamo definire questa forza che fa accadere ogni cosa Dio oppure “swabava”, che significa l’inerente natura di ognuno – diceva Anasuya Devi quando mi trovavo a Jillellamudi – aggiungendo che “questa forza si manifesta non solo negli eventi naturali e ciclici ma anche nell’inaspettato e persino nel tentativo dell’uomo di controllare l’inaspettato, e persino nel senso di aver noi deciso di compiere un determinata azione o corso di azioni”.

Come dire che questa “forza” assume la forma di compulsione interiore e che noi, facendo nostra la formulazione, definiamo “libera scelta”… Insomma la libera scelta non è altro che lo svolgimento mentale consequenziale allo stimolo interiore ricevuto, il modo banale attraverso il quale quella “forza” o “swabava” ci fa compiere l’azione “volontariamente”.

Ciò non toglie che nel nostro io, almeno quel riflesso mentale della coscienza che definiamo “io”, siamo perfettamente convinti che l’azione compiuta è frutto di una nostra decisione, che il pensiero osservato è nostro proprio, che questo scritto è da me arbitrariamente redatto, che tu stai leggendo di tua propria opzione.

“Ma i frutti del nostro agire non sono permanenti – diceva Ramana Maharshi – ed il rincorrerne i risultati ci rende prigionieri dell’oceano del “karma” (il divenire attraverso l’azione), impedendo la comprensione della vera natura dell’Essere”

Ciò significa che le azioni da noi compiute con uno scopo, e con appropriazione identitaria del compimento, ci portano ad esperimentare piaceri e dolori. Essi sono in verità limitati nel tempo ma lasciano dei semi nella mente, causa di una successiva fatica nell’evitare o perseguire certe azioni. Questi semi (detti in sanscrito “vasana”) ci spingono in una serie apparentemente infinita di coinvolgimenti ed atti, legando la nostra attenzione al mondo esteriore ed impedendo la scoperta della nostra vera natura interiore. Perciò nell’intendimento dato all’azione non può esserci affrancamento dall’io (ego), che è limitato al corpo mente.

Si potrebbe obiettare che se non c’è intendimento nemmeno l’evoluzione è possibile, né il miglioramento della propria condizione…. Eppure accettando la crescita spontanea alla quale la vita spontaneamente tende (come è nei fatti comprenderlo) saremo “liberi” di portare a termine tutte quelle azioni che naturalmente vanno nella direzione della crescita, ad adempimento dell’ispirazione interiore, senza assumercene l’onere….

Chiamarlo “arrendersi” alla propria inerente natura o svolgimento del proprio dovere karmico (dharma) a questo punto non importa, succede e basta!

Paolo D’Arpini

In che modo conobbi Shirdi Sai Baba !? – Avvenne nell’atmosfera assolutamente non-duale di Jillellamudi alla presenza di Anasuya Devi

Nel 1918   Shirdi Sai Baba, il santo che univa tutte le fedi e compiva mille prodigi, lasciava il corpo mortale, cinque anni dopo nel 1923 nasceva Amma Anasuya Devi. Padre (baba) e madre (amma). La peculiarità di questi due grandi esseri fu che sin dalla nascita manifestarono la perfezione. Sai Baba era un Nitya Siddha (eternamente perfetto) ed Amma l’incarnazione della Madre Universale. Il primo non lo incontrai mai fisicamente (per ovvi motivi) mentre la seconda ebbi la grande fortuna non solo di incontrarla ma di trascorrere assieme a lei vari anni, diluiti nel tempo, di beata ed amorosa convivenza. Accadde durante quelle permanenze a Jillellamudi che, avvolto nello spirito della Madre, potei comprendere appieno il significato del messaggio del Baba di Shirdi e di altri santi e maestri realmente e fisicamente visti, come ad esempio Nisargadatta Maharaj o Uppaluri Gopala Krishnamurti.

Le lunghe giornate trascorse nella vicinanza ispiratrice di Amma mi permisero di far conoscenza, indirettamente, alcuni grandi santi del passato, come Ramakrishna Paramahansa (quante lacrime versai sul Gospel of Sri Ramakrishna by M.), e come il santo di Shirdi, di cui bevvi gli insegnamenti nel libro Sai Satcharita (in esso si raccontano aneddoti e dialoghi tenuti durante la sua vita). Purtroppo sia il Gospel di Ramakrishna sia il Satcharita di Sai Baba non sono stati tradotti integralmente (e nemmeno parzialmente). Del primo esiste una rassegna accorpata per argomenti della Ubaldini Editore (che ha perso molto dello spirito narrativo dell’originale) e del secondo abbiamo solo fuggevoli referenze su un breve testo biografico scritto da Arthur Osborne (tradotto anche in italiano da Il Punto d’Incontro). Peccato! Ma almeno posso dire che la lettura di quei volumi fu per me illuminante e fonte di riflessione, allora e successivamente di ritorno a Roma od a Calcata.

Dovete sapere che sia Amma che Sai Baba piacevano ai membri di tutte le religioni, anche ai cristiani ed ai maomettani, questo perché –a parte l’innegabile potere da essi emanato, non insegnavano in termini contradditori a quelle religioni, soprattutto in merito alla cosiddetta teoria della reincarnazione. Amma era particolarmente indifferente a tale teoria, diceva che è l’energia divina (Shakti) che da ad ognuno il proprio destino e che noi non siamo responsabili e non dobbiamo perciò sentirci in colpa. Lei affermava che il senso di “libero arbitrio” è solo una componente che consente il compimento di quanto ci è affidato dal destino, similmente fece Shirdi Sai Baba, che era “musulmano” (non nel senso “classico” ovviamente) e visse in una moschea per tutta la vita. Per entrambi anche gli insegnamenti più sublimi contenuti nei testi sacri, erano solo una “forma di ignoranza per cancellare un’altra ignoranza”, così si espresse Sai Baba commentando un verso della Bhagavadgita. Tra l’altro ora ricordo un’altra cosa detta da Sai Baba al proposito di come si produce l’accumulo di “vasanas” le tendenze mentali che proiettate causano nuove “incarnazioni”, ovvero attraverso lo “stato d’animo” nel quale l’azione viene compiuta .

Qui voglio fare un inciso anche sulla visione buddista della “reincarnazione” che è intesa non in senso egoico –appartenente cioè allo stesso agente, il quale è in verità considerato irreale- ma come maturazione di processi mentali inespressi che cercano un compimento e procurano una forma “di continuità” manifestativa nella materia.

Ma è nella Bhagavadgita che stasera ho trovato alcune frasi molto esplicative sull’argomento, ovvero sul significato dell’agire nel mondo e della formazione del karma. Ovviamente le ho lette, come dicevano Amma e Sai Baba, nella comprensione che è un’ignoranza (mascherata da conoscenza) per cancellare altra ignoranza (che chiamiamo conoscenza empirica) “, eppure me le sono tradotte (gli originali sono in sanscrito ed in inglese) e rielaborate anche alla luce degli eventi vissuti e della mia comprensione odierna.

Sì, perché oggi, come ogni altra domenica, mi sono recato alla Stanzetta del Pastore, a compiere il mio “dovere”, ovvero ad aspettare qualche visitatore che desiderasse conoscere gli archetipi e gli elementi del sistema cinese ed indiano (da me integrato in un “unicum”) attraverso la lettura della mano (con retribuzione ad offerta volontaria). Svolgo questo mestiere in quanto è una cosa che so far bene e con perizia e per sentire che “ho fatto il possibile per guadagnarmi da vivere” (avendo espletato un compito nel mondo), ed anche perché ritengo (direi con arroganza “altruisticamente”) che questa forma di “conoscenza” possa essere utile alle persone che desiderano approfondire la visione interiore, del loro mondo psichico.

Non è entrato nessuno, solo alcuni curiosi si sono fermati davanti alla porta a leggere e commentare i foglietti attaccati ed a scattare fotografie dell’ambiente esterno della stanzetta, alquanto caratteristico e “magico” (così ha detto qualcuno). Non fa nulla, anzi meglio, così ho potuto lavorare sulla traduzione del testo che segue.

Paolo D’Arpini

Dalla Bhagavadgita:

Strofa 27.

Ogni azione viene compiuta dalla natura, per mezzo dei suoi modi (guna – stimoli, qualità). L’uomo illuso confuso dal suo egoismo afferma: “Sono io che agisco”.

Strofa 28.

Colui che vede nei rispettivi modi della natura (e nelle conseguenze) comprende che tali pulsioni (causate da memoria e da tendenze ataviche) agiscono attraverso gli organi interni (i sensi e la mente) verso quelli esterni (i nomi e le forme). Egli però non si identifica con quell’agire, oh Arjuna!

Strofa 29.

Ma colui che è illuso dalle pulsioni naturali rimane nell’errore di essere egli stesso a compiere l’azione (di propria libera scelta) e non serve a nulla confondergli la mente (trasmettendogli questa conoscenza).

Strofa 30.

Perciò, dedicando ogni azione al Sé (Atman – l’Io presente in tutti gli esseri) libero da intenzioni e speranze e dal senso di possesso, curata la febbre mentale, combatti oh Arjuna!