Paolo D’Arpini

LE STORIE, LE AVVENTURE, I RICORDI, LA CARRIERA, LA VITA

(Nota autobiografica)

Paolo D’Arpini

Calcata, Novembre 2007.
Vivo in una casupola fatiscente sulla rupe esterna di Calcata, vicino al lavatoio ed alla fogna comunale. Non dispongo di alcun reddito se non il soccorrevole, saltuario, sostegno di amici compassionevoli e piccolissimi proventi da attività culturali. Sono soddisfatto della mia condizione, mi sento libero.

Volendo però raccontare come tutto ciò è avvenuto debbo fare alcuni passi indietro, sia nel tempo che nel luogo, ed ecco che mi ritrovo nel 1967 in cui nacque a Verona il mio primo figlio, avevo 23 anni. All’anagrafe, mia moglie Evelyne ed io, lo chiamammo Massimiliano ma in casa egli era Davide (pronuncia francese). Forse un altro dei miei tentativi inconsci di mascherare e nascondere qualcosa sulle mie origini. Infatti si sospetta che la mia famiglia fosse di origine ebraica, si convertì e cambiò cognome durante il periodo della promulgazione delle leggi razziali del fascismo. Nei miei tratti genetici c’è il vizio –forse- di voler creare confusione sulla mia provenienza. Ovviamente non sono ebreo, sono stato battezzato con un nome cristiano: Paolo. Eppur ancora recentemente un’amica ascoltando il racconto delle mie origini ha commentato sarcasticamente: “Ah adesso capisco perché sei così… a me gli ebrei non son mai piaciuti”. Ed io -hai voglia a spiegare-: “…ma no, son cristiano, non sono ebreo… anzi sono totalmente laico”. Non mi è sembrato però che le giustificazioni sortissero qualche effetto ho così capito com’è profondo il pregiudizio in tanta parte dell’umanità. Ringrazio quindi Dio per questa ennesima lezione. Occorre essere sempre più modesti se si vuole sopravvivere.

Purtroppo nella mia vita non ho mai avuto un dono spiccato per la modestia, ho sempre considerato me stesso e la mia opera come un degno percorso evolutivo. Abitando a Verona avevo già collaborato, nel 1967-68, ad una rivista locale che si chiamava Verona Beat, un cult tipico di quegli anni, ebbi la fortuna di intervistare personaggi tipo Adriana Asti, Gino Bramieri, L’Équipe 84 e compresi subito come fosse facile manipolare la pubblica opinione. Lo scoprii facendo decollare nelle classifiche dei primi dieci complessi beat, fra cui alcuni molto famosi e conosciuti nazionalmente, un fantomatico gruppo da me inventato chiamato “Les Fades” (che significa ‘gli stupidi’ in francese) facendolo quasi arrivare al top ten. Quando i miei amici di Verona Beat scoprirono l’amaro inganno persi il posto al giornale ma ciò mi giovò immensamente giacché potei così dedicarmi alla mia vera passione: la poesia.

Nel 1970 stampai con i tipi a piombo (e pressa manuale) di Gabriel Rummonds (un americano che editava libri d’arte a Verona) il mio primo volume: “Ten poems and ten reflections”. Su carta gialla quasi filigranata e inchiostro rosso, la copertina fatta a mano era in cartoncino avana rivestito. Poi passai anche alle poesie visive che esposi in varie gallerie del Veneto ed a Milano nell’atelier della poetessa Vittoria Palazzo.

Nel 1971 Fondai una delle prime associazioni culturali libere, si chiamava “Ex” che voleva dire ‘fuori’ (dagli schemi). La sua sede era in un locale storico in piazzetta San Marco in Foro a Verona, ove sino a poco prima c’era l’ultima vera osteria antica “Da Amelia” in cui si ritrovavano i poeti dialettali e l’intelligenza veronese. Anche in questo caso, con l’aiuto di Lina Boner e Maria Uyttendaele, mi divertii un mondo ad accompagnare il successo di gruppi emergenti come i Gatti di Vicolo Miracoli (ricordo Smaila che suonava per noi quasi tutte le sere) ma anche il santo bevitore Francesco Guccini, Jerry Calà, Massimo Altomare, Checco Loy e tanti artisti poi divenuti celebri che collaboravano con la nostra sala espositiva (in alleanza con la più famosa galleria moderna di Verona, la Ferrari) o che ci allietavano con le loro recite. Tutto si svolgeva in un retro-cantina ben riscaldato su soffici cuscini in polistirolo espanso che spesso avevano buchi causati dalle numerose sigarette che tutti fumavamo. In questa bolgia infernale della cultura stavo attuando un mio desiderio sincretico che però meritava un ulteriore sviluppo.

Fu così che nel 1972, lasciando una ragazza incinta, partii per l’Africa con l’intento di fare un servizio fotografico e scrivere un libro. Il viaggio durò parecchi mesi e mi portò a vagare per tutta l’Africa equatoriale. Con mezzi di fortuna, con crisi di malaria, con situazioni estremamente imbarazzanti (passavo dal Katanga proprio durante il periodo delle sommosse o da Bangui quando c’era l’imperatore pazzo Bokassa) eppure sempre più pulito nel pensiero, sempre più consapevole del valore della sopravvivenza. Ringrazio -è doveroso farlo- tutte le ambasciate italiane dei vari paesi da me visitati che hanno contribuito con le loro prebende all’esperienza più vera e più sentita di un mio ritorno alle origini fisiche. Infine, stanco e non avendo altro da fare (se non prendere il sole a Malindi e fumare il narghilè) decisi d’imbarcarmi per l’India.

Sbarcavo a Bombay il 23 giugno del 1973.
Da quel giorno non mangiai più carne, ma senza specificatamente deciderlo, e da quel giorno scoprii ciò che avevo sempre sospettato potesse esistere: essere se stessi. Accadde farfugliando parole senza senso dinanzi al mio Guru Muktananda che fui toccato dallo Spirito.

Nel frattempo (in Belgio) nasceva la mia prima figlia, si chiama Barbara, essa è nata per insegnarmi l’umiltà dell’incompletezza. L’arroganza non ha giustificazioni, oppure è l’ineluttabilità del destino, ma ero troppo preso dai miei ‘nuovi’ compiti e non potevo né volevo più occuparmi delle cose del mondo. Allorché tornai in Italia abbandonai Verona e la vecchia vita, lasciando la prima moglie ed il primo figlio, contemporaneamente abbandonando anche la seconda moglie e la prima figlia.

Tornai a Roma dov’ero nato ma da cui ero fuggito orrificato, nel 1974 affrontai la madre matrigna, andai ad abitare in casa dello zio Giordano, che era morto e la casa vuota. Vissi così in Via Emanuele Filiberto, vicinissimo a Piazza Vittorio, -con il suo salutare mercato- meditando, cantando, astenendomi da ogni rapporto sessuale e producendo traduzioni di testi sacri e lavorando come addetto alle pulizie da Valentino (il couturier). Una bella esperienza che contribuì alla mia maturazione al punto di spingermi sino a Calcata, su indicazione di Moreno Fiorenzato.

Siamo ormai giunti al 1977. A quel tempo avevo già avviato una ditta artigianale che distribuiva prodotti integrali, antesignana del settore, si chiamava Annapurna in omaggio alla Madre Terra (Anna/Cibo – Purna/Perfezione). Mi ero divertito anche a produrre simpatiche etichette e buste in carta (disegnate da Moreno) nonché libricini di ricette e buoni consigli.

Di lì a qualche anno, dopo un’esperienza forte con il teatro da strada nei Vecchi Tufi, fondai assieme ad alcuni amici (Sandra Forti, Rita Guerrieri, Pino Roveri, Gemma Uyttendaele) il Circolo Vegetariano VV.TT. di Calcata. Poco prima era già nata la mia seconda figlia Caterina (nel 1979 in Belgio) e con la fondazione del Circolo nasceva anche il mio secondo figlio Felix (1984), nella nostra casa di Calcata. Con lui ebbi ed ho un rapporto da madre/padre-figlio. Oggi, che egli ha raggiunto l’età dei diritti civili ed è a sua volta padre sento che questa esperienza -l’essermi occupato di un figlio a tempo pieno- mi ha redento da tante fughe precedenti, riavvicinandomi anche alle due figlie Caterina e Barbara, purtroppo non al primo, Davide, che abita a Parigi e non vedo più da tantissimi anni.

Verso il 1987 iniziai a collaborare con vari giornali, prima in forma incerta, poi pian piano avanzando all’interno del settore. Iniziai a scrivere per il Corriere di Viterbo e Gazzetta della Flaminia, proseguendo poi come pubblicista per Il Messaggero, Paese Sera, Momento Sera, Il Giornale d’Italia, Mondo Sabino, Avvenimenti, Cuore, Aam Terranova e altre testate. Contemporaneamente i comunicati stampa emessi dal Circolo (inviati all’AGI, ANSA e ADN-kronos) venivano pubblicati su diversi quotidiani (Corriere della Sera, La Repubblica, L’Unità, Il Manifesto, La Stampa, Il Giornale, Il Tempo, L’Indipendente, etc.) e su periodici nazionali (Bell’Italia, Airone, Oggi, Gente, Panorama, l’Espresso, etc.). Mentre le varie Tv mi invitavano in studio o venivano a filmarci a Calcata. Una volta per il Festival degli Uomini Casalinghi (con Antonio D’Andrea) vennero Fininvest e Rai al completo, tutte le reti.

Un momento di gloria durato circa 10 anni e fu proprio durante questo periodo, verso i primi anni ‘90, che conobbi Antonello Palieri, che allora lavorava all’Adnkronos, egli contribuì assai (assieme ad altri amici dell’Ansa e dell’Agi) a rilanciare messaggi di ecologia profonda e di spiritualità laica. Ricordo la campagna per il salvataggio delle trecentomila mucche da immolare alla CEE, la proposta del bioregionalismo, la petizione per la libertà di sepoltura nel proprio terreno, la battaglia per la salvaguardia di Calcata e delle falde acquifere della valle del Treja.
Le battaglie più sporche, contro l’inceneritore con discarica da istallarsi a Civita Castellana ed il mega-lunapark che si voleva realizzare a Campagnano, mi costarono invece la visibilità mediatica. Purtroppo essendomi messo contro le gerarchie del potere economico, politico, ne conseguì una mia messa in naftalina.

Scomparii quasi dai giornali e dalle televisioni e fui molto ridimensionato. Ciò mi ha giovato enormemente. Infatti adesso mi dedico solo allo scrivere necessario ed alla poesia (quasi come agli inizi). L’unico vezzo che mi resta è la pubblicazione saltuaria di qualche articolo su riviste amiche (Lato Selvatico, Quaderni, Mondo Sabino, Etrurialand) e lo studio comparato degli archetipi zodiacali su Lumen.

E fin qui andrebbe tutto bene, in fondo sono un uomo che ha vissuto, dando e prendendo molto dalla vita, già questa è una bella soddisfazione. Essendo poi diventato nonno di 4 nipotini maschi mi riempie di orgoglio umano… ed infine dal 13 giugno 2008 (h. 20,32) la discendenza è assicurata essendo nata Mila la mia prima nipotina femmina.
Evidentemente la vita è perenne mutazione ed un’altra nascita ha allietato la casa di Sofia e di mio figlio Felix: il sesto nipotino, Teo D’Arpini, è nato il 3 aprile 2010 a Calcata (in casa), alle h.1.20 di mattina (ora solare corretta 00.20). Anno della Tigre di Metallo, ora del Topo, stagione del Drago. Insomma un archetipo Yang maturo, come si dice…
Inoltre anche per me sono subentrati importanti cambiamenti… Dal 3 luglio 2010 il mio domicilio abituale non è più la casupola sopra la fogna comunale di Calcata.
Seguendo le tracce di Caterina, mia nobile ed amorevole compagna di vita, sono diventato un “pendolare” fra Treia (Marche) e Spilamberto (Emilia) in attesa di stabilirmi con lei da qualche parte…
Ma sapete una cosa? Oggi ho ricevuto da Carlo Maria Ponzi, de Il Messaggero di Viterbo, una lettera in cui mi chiede se è vero che non abito più a Calcata o se è una semplice leggenda metropolitana… Ed ecco cosa gli ho risposto: “La verità non solo (come dicono i laici) non può essere posseduta, essa non può nemmeno venire perseguita.Infatti la verità é sempre presente e manifesta, altrimenti non sarebbe verità ma semplice descrizione. E la descrizione non é mai la sostanza…
Ciò é vero – nel mio caso – anche dal punto di vista empirico… proprio così… Non abito più a Calcata… in verità non intendo nemmeno tornarci… se non in forma di una apparizione ectoplasmica.
Per fortuna che la terra é tonda ed indivisa, l’aria che vi circola é la stessa, l’acqua pure… ed inoltre “nulla si crea e nulla si distrugge…”
Per cui posso dire di essere ancora presente a Calcata…

spirali

GLI INCONTRI CON I SANTI

Libro in lavorazione. Per avere il testo completo degli Incontri contattare l’autore.

Anasuya, la Madre di Jillellamudi.
“Preoccuparsi è un insulto alla vita” afferma Carla Lonzi e potrebbe essere anche il motto a Jillelamudi, nella presenza della Madre. Qui le necessità son viste per quello che sono, semplici pulsioni, segnali di un fluire in un tutto unito, in cui ogni cosa legata all’altra indissolubilmente è sempre soddisfatta. “Dal Tutto sorge il Tutto, se dal Tutto togli il Tutto, solo il Tutto rimane” questa la Dichiarazione dei Rishi. Si sta in un nido di protezione e benevolenza come essere accuditi dalla propria madre. E’ talmente semplice, non ci si angustia minimamente per alcunché, non appaiono desideri di sorta, non c’è nulla da voler cambiare, da ottenere (oltre ciò che è).
Tutto ha un senso inequivocabile ed allo stesso tempo non si percepisce alcuna finalità. Semplicemente il vivere, forse potrei dire ‘sopravvivere malgrado se stessi’. Succede spontaneamente. Ma come mai si sente così compiutamente qui a Jillellamudi? Perché non ovunque noi siamo? Con questo interrogativo in mente ho continuato a fare la spola fra il ‘qui ed ora’ e ‘il qui ed ora’.
Ed eccomi… Nel sud dell’India, dove la piattezza è assoluta, nella terra dei Telgu, dove la cosa più alta sono i bordi dei canali e l’orizzonte non ha contrasti, un villaggio rurale di fango secco, si chiama Jillellamudi. Prende il nome da un fiore asciutto ed alto, il cui fusto raggiunge i due metri, che assomiglia al tasso barbasso ma il colore dei fiori è viola o blu come la malva. In questo villaggetto di capanne e poche case di mattoni crudi c’è la “Casa di tutti” una struttura relativamente grande, dalla cui terrazza si può spaziare con lo sguardo a perdita d’occhio, senza vedere altro che campi e campi e qualche rado albero in mezzo alle risaie. Qui risiedeva il corpo mortale e qui è sepolta Anasuya Devi, amma, la madre di tutti. Ma per capire come accadde che finii in quella specie di ‘cul de sac’ o ‘sacred abode’, in quel rifugio totale dell’anima, debbo ripartire da Ikaria, dalla caduta della saccenza, e da lì seguire il percorso dei sufi sino al Deccan Plateau.
Scrive Omar Kayam, santo poeta persiano: “Non vietatemi di bere vino, di godere le donne, perché Dio è compassione. Non ditemi che sto peccando, lasciatemi peccare a volontà. Porre fine alle proprie azioni per paura della punizione è da miscredenti, significa dubitare della Sua compassione”.
Leslie, una giovane donna inglese che avevo conosciuta in India, per un caso del destino abitava a Roma vicino alla basilica di Santa Maria Maggiore. Dopo il mio ritorno in Italia ed abbandonata Verona (la città in cui avevo vissuto il mio fermento culturale durante gli anni appassionanti della giovinezza) me la ritrovai come vicina allorché ritornai a Roma, città in cui ero nato. Avvenne quando andai ad abitare in una vecchia casa nei pressi di Piazza Vittorio. Tra la mansarda di Leslie e lo “Sri Gurudev Mandir”, come allora chiamavo il luogo in cui vivevo, c’era meno di un chilometro, per chi conosce la grandezza di Roma comprenderà che eravamo praticamente a due passi. Entrambi eravamo benedetti dal Guru, praticavamo la stessa via, lei viveva semplicemente facendo traduzioni ed io sbarcavo il lunario prestando piccoli servizi e facendo le pulizie in casa di amici e conoscenti.
La mia giornata era molto stretta, un perfetto orologio di disciplina e pratica spirituale, sveglia al mattino prima dell’alba, meditazione, canti, letture edificanti, passeggiate a piedi nei giardini di Roma, accudimento ed istruzione di altri cercatori di passaggio, sopravvivenza personale con 500 lire al giorno (eravamo nel 1974). In quella casa di Via Emanuele Filiberto passarono e vissero con me parecchi “santi”, ricercatori e discepoli di maestri famosi, ed anch’io mi sentivo praticamente un santo, con poco o nulla sulla pelle del vecchio Max D’Arpini, artista concettuale e poeta trasgressivo. Ora praticavo l’astinenza sessuale (il contrario di quello che facevo a Verona dove ero famoso per la promiscuità), ero diventato vegetariano stretto (quando prima le feste orgiastiche a base di carne e vino erano uno dei miei passatempi), vivevo praticamente in assoluta povertà monastica, senza elettricità, né acqua corrente in casa (lavavo i miei panni al lavatoio condominiale), scevro da ogni vizio, confort o frivolezza, ero “buono e compassionevole”. Soprattutto ero fiero della mia capacità di controllare i sensi, nessuna donna era più riuscita a coinvolgermi, qualsiasi fosse il suo fascino e bellezza, persino nel sogno avevo raggiunto la capacità di impedire ogni eiaculazione notturna, ero un perfetto Bramachari. In questa ottica Leslie era per me come una sorellina alla quale dimostrare qualche affetto, nulla di più, anche se ero consapevole, con il passare del tempo e frequentandola sempre più spesso, che lei dimostrava una spiccata simpatia e debolezza nei mie confronti, consideravo però la cosa con distacco e con un sorriso sulle labbra… (mica tutti potevano raggiungere il mio livello di autocontrollo).
Leslie mi parlava spesso di una santa che aveva conosciuta nel sud dell’India, una certa Anasuya (che vuol dire aldilà della gelosia), viveva in un remoto villaggio dell’Andra Pradesh, a Jillelamudi, era sposata e madre e forse anche nonna, una manifestazione dell’amore universale, “Amma” (mamma). Leslie mi mostrava di tanto in tanto dei giornaletti stampati crudamente che riceveva da quella che era chiamata la “Casa di Tutti”. Io li guardavo con un po’ di sufficienza e li leggiucchiavo senza molto interesse, di tanto in tanto mi soffermavo su qualche immagine della santa Madre, un bel viso tondo, pulito ed onesto, un po’ sorridente ed ammiccante, come la Monna Lisa. Passò ancora del tempo e tutto sembrava indicare per me una strada di rinuncia, santità ed apprendimento, ero preso dai miei doveri verso i compagni poco illuminati, fornivo un esempio di disciplina spirituale ed ero circondato da gente che mi rispettava e mi vedeva -forse- come un possibile futuro maestro. Accettavo il bello ed il cattivo tempo sapendo che la Grazia del Guru era con me. Non mi ero più mosso da un paio d’anni, ma di tanto in tanto partecipavo a qualche convention importante (come ad esempio il primo festival dello Yoga che si tenne a Milano organizzato da Carlo Patrian e da Giorgio Furlan), ero il rappresentante più qualificato del Siddha Yoga in Italia, od almeno così ritenevo.
Leslie ad un certo punto mi parlò della sua intenzione di tornare in India per visitare Amma a Jillellamudi, intendeva viaggiare via terra seguendo l’antica rotta carovaniera, mi chiese quietamente se volessi accompagnarla. Meditai sulla cosa a lungo, in fondo per me che ero rimasto orfano di madre quando ero un bambino di 10 anni, l’idea di un incontro con la Madre Universale era attraente, ricordavo inoltre qualcosa che Amma aveva detto di se stessa, su uno di quei giornaletti: “Chi sei tu? – “io sono la madre” – “la madre di chi?” – “di tutti” – “ma come ti percepisci?” – “io sono me stessa, quell’io che è diventato ogni io, madre non significa solo questa che siede sul letto a Jillelamudi. Madre significa quella che non ha inizio né fine, che è l’inizio e la fine, quella che è divenuto ogni cosa e che è l’incomprensibile, l’illimitata ed irresistibile base”. Decisi infine di partire con Leslie, cominciai a raggranellare il denaro per il viaggio e per l’eventuale permanenza che non sapevo quanto sarebbe durata. Le cose stranamente andavano bene, non so come riuscii a mettere assieme mille o duemila dollari, accettando anche commesse per eventuali oggetti che avrei riportato dall’India (sitar, mrdanga, cembali, incensi ed altro materiale sacro). La prospettiva del viaggio mi rinvigoriva e mi rendeva più attivo, ovviamente non trascuravo la mia disciplina autoimposta ed i miei ‘doveri’ anch’essi autoimposti.
Il tragitto iniziale prevedeva l’imbarco da Ancona sino in Grecia, permanenza in un’isola vicino alla Turchia, per meditare e prepararsi al lungo viaggio… L’isola in questione si chiama Ikaria, fuori dalle rotte turistiche e richiedeva due traghetti per arrivarci, è l’isola mitologica sulla quale precipitò Icaro, dopo la sua malaugurata ascesa al cielo. Era la fine di settembre, il posto paradisiaco, l’accoglienza ricevuta invitante ed ospitale, mare limpido, terme calde e curative, aspri paesaggi, buon formaggio di capra e verdure fresche. Vivevo con Leslie in un appartamento che ci era stato offerto da amici incontrati sull’isola, letti separati ovviamente, ma stavamo sempre assieme andavamo in giro per monasteri e montagne, oziavamo al sole caldo e piacevole, la stagione era propizia. Una notte, dopo circa due settimane di questa vita beata, feci un sogno tremendo, mi sentivo avvampare dal desiderio sessuale, tutto era un inferno di desiderio irrefrenabile, mi svegliai di soprassalto, com’ero abituato a fare per controllare i miei sogni, ma la sensazione non mi abbandonava, andai a mettermi sotto la doccia sperando che l’acqua fredda calmasse i bollenti spiriti, mi sentii un po’ rinfrancato ma allo stesso tempo ancora più “pronto”. Pregavo Dio ed i santi di aiutarmi a controllare me stesso, tornai nella stanza, era ancora notte fonda, Leslie era nel suo letto, senza emettere suoni, tutto era silenzio ma non nella mia mente, impossibile resistere, ad un certo punto mi sentii letteralmente sollevato e mi vidi avvicinarmi al letto di Leslie, mi infilai dentro, lei mi chiese “cosa fai?” ed io “ho freddo”, mi fece spazio e mi abbracciò, facemmo l’amore senza sosta, con foga, con passione e violenza e tenerezza, anche dopo averlo fatto una, due, tre volte il desiderio non scemava. Insomma una debacle, totale….(dal mio punto di vista).
Andò così anche nei giorni successivi, quando camminavamo in montagna le saltavo addosso, cercavo una grotta e facevo l’amore con lei in piedi od in qualsiasi altro modo. Inutile dire che la mia autostima, come santo, era scesa a livelli inaccettabili, mi vedevo, novello Icaro, precipitato nell’abisso dei sensi. Solo molto più tardi scoprii che l’esperienza mi era necessaria per perdere la mia arroganza del raggiungimento che mi avrebbe impedito di accettare e sentirmi accettato dalla Madre. Allora, però, sentivo di dover espiare e ritrovare la mia purezza, parlai con Leslie di questo, lei piangeva e mi guardava implorante, le dissi che non potevo più viaggiare con lei, che ritornasse indietro se non voleva affrontare il viaggio da sola o che prendesse un aereo, io avrei proseguito sulla strada dell’espiazione da solo e sarei comunque andato da Anasuya, forse a farmi perdonare i miei peccati od a cercare di capire come tutto ciò fosse potuto accadere. Leslie, sperava che cambiassi idea e mi accompagnò sino alla costa turca, ad Efeso, su un piccolo aliscafo che faceva servizio in quel breve tratto di mare che separa l’Europa dall’Asia. Durante il tragitto non parlammo mai, appena sbarcati la salutai senza quasi guardarla in faccia e mi allontanai subito sul primo bus che mi capitò di incontrare. Ma questa non è l’occasione per continuare a parlare di questo periglioso viaggio, di tutte le esperienze vissute e le sensazioni percepite, sarebbe interessante farlo magari in un’altra storia.
Alla fine giunsi davanti alla Madre, che altro dire o fare? Ero stato accolto ed io stesso accoglievo.