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“Compagni di viaggio. La ricerca spirituale laica inizia e finisce nel Sé” di Paolo D’Arpini con postfazione di Caterina Regazzi

“Compagni di viaggio. La ricerca spirituale laica inizia e finisce nel Sé”
Autore: Paolo D’Arpini
Postfazione di Caterina Regazzi
Edizioni OM Bologna, Via 1 Maggio 3/e – Quarto Inferiore
Tel. 051 767079 – Cell. 393/33.64.368

Dalla IV di copertina:
“Compagni di viaggio” è una sorta di diario, una raccolta di aneddoti e di esperienze vissute assieme a personaggi particolari, diremmo “straordinari”, incontrati lungo il cammino spirituale. La via personale dell’autore è quella della spiritualità laica, quindi questi incontri con i “santi” sono narrati in modo molto informale senza alcuna enfasi o pretesa, cercando comunque di trasmetterne l’insegnamento o il messaggio ricevuto. In alcuni casi gli incontri non sono nemmeno avvenuti su un piano fisico ma su un piano elettivo. Il testo contiene resoconti di prima mano di alcuni momenti significativi vissuti assieme a diversi maestri, una narrazione di dialoghi e confidenze, le stesse che si raccontano tra amici nei momenti d’intimità, durante il ritorno alla nostra vera casa.

Postfazione di Caterina Regazzi:

Il mio amato Paolo mi ha chiesto di scrivere una postfazione al suo libro “Compagni di viaggio”, ed io, che pure compagna del suo viaggio sono, mi ci accingo, non dico di buon grado, in quanto le cose da fare nella mia vita sono tante (per me) e le energie in questo periodo sono poche. Del resto glielo devo proprio perché la lettura di certi suoi racconti, di cui molti sono compresi in questo libro, è stata per me un grande nutrimento, che mi ha fatto avvicinare ancora di più, di quanto non stessi già facendo da sola, ad un mondo di spiritualità in cui l’evento principale, la tendenza a… più forte è la “scoperta del Sé”. Eh si, perché nonostante il contenuto più evidente in questo libro siano i racconti
degli incontri di Paolo con vari santi e saggi, incontri diretti, fisici, ma a volte solo indiretti, i personaggi descritti e ricordati hanno avuto per Paolo, ed indirettamente avranno sul lettore, lo scopo di aiutarlo a scoprire il proprio Sé, fungendo da specchio, in cui l’ente si riflette, vi vede e si riconosce.

Il testo, a tratti, è un dialogo di Paolo con se stesso o forse con un ipotetico lettore, per cui, per me è stato quasi impossibile, nella correzione delle bozze, fare alcun taglio, alcuna sostituzione, persino, come avevo iniziato a fare, togliere alcuni puntini di sospensione che per me erano di troppo, che evocavano un discorso “parlato” più
che scritto, e che qui abbondano. È una scrittura appunto “evocativa” che lascia al lettore la possibilità di immaginare, per terminare la frase, un finale tutto suo. Difficile per me, che sono una persona molto concreta (o lo ero?), digerire questo tipo di scrittura.

Ma, parlando di spiritualità, come si fa ad essere concreti? Ognuno di coloro che leggeranno questo testo, potrà trovarvi fatti, idee, immagini che gli “risuonano” o magari cose che lo infastidiranno, ma di certo questo libro non può lasciare indifferenti. Il percorso spirituale di Paolo è la sua vita e la sua vita è il suo percorso spirituale. Questi racconti sono stati originariamente scritti durante anni ed anni di incontri e di esperienze. Un libro sulla spiritualità laica? Sugli incontri della sua vita che hanno illuminato il suo percorso? La descrizione dell’emergere improvviso dal buio della luce del suo spirito? Presto fatto: c’è un grande baule immaginario dove negli anni sono stati fortunatamente (anche per noi) e fortunosamente (per lui) raccolte le impressioni, le esperienze, che si possono leggere e godere anche come “semplici” avventure, che appaiono vive e vivide come fossero state vissute appena ieri e raccontate in maniera così vitale e a volte anche auto-ironica che ci pare di vederle scorrere davanti ai nostri occhi e, come un bambino che guarda e riguarda per dieci, venti volte sempre lo stesso cartone animato o si fa leggere per dieci venti volte la stessa favola, io leggo e rileggo alcune di queste storie con rinnovato piacere e godimento (la lebbrosa, l’abbracciona, la storia con Leslie, ecc.).

Mi ritengo una persona molto fortunata di poter godere di queste esperienze anche se di seconda mano perché Paolo non ne fa mistero e le custodisce sì nel suo cuore, ma le condivide generosamente con chi sa che le potrà apprezzare e farsene bagaglio. E così sarà per chi si avvicinerà a questo libro, certo che dopo averlo letto e magari anche riletto, consumandolo quasi, ognuno potrà guardare dentro e fuori di sé, con maggior chiarezza e amore. Ancora una volta, Paolo, grazie per quello che ci doni e di essere quello che sei. (Caterina Regazzi)

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Il paradosso delle divisioni – In un pianeta che gira dove stanno oriente e occidente?

Come si fa a capire dove sono la destra e la sinistra, l’oriente e l’occidente, su una palla che gira a forte velocità nello spazio, attorno a un sole, e contemporaneamente si sposta verso un ulteriore vuoto, allontanandosi dal big bang primordiale? Eppure su questa piccola palla l’uomo ragiona come se la Terra fosse divisibile in settori, come se veramente avesse senso la separazione (sic) in stati e nazioni, in aree e sub aree…

Ecco, mentre la NATO, che si è allargata all’Europa dell’Est, costruisce le rampe di lancio di nuovi missili (verso chi?), in Siria la guerra va avanti a singhiozzo e anche in Irak, in Yemen e in Afganistan si muore in silenzio; in Africa le notizie non arrivano e non partono più, ormai è terra di nessuno; in America settentrionale e meridionale ci si prepara al grande salto; in Cina, in Tibet, al polo nord… al polo sud…
Chi fa queste differenze, chi decide le ubicazioni e gli interessi strategici, di chi è questa Terra che tutti abitiamo?

La Terra gira, gira… e non cambia la sua natura di pianeta che non conosce frontiere e difformità interne alla sua struttura unificata: anche se fosse una palla da football con le pezze di diverso colore, ciò non impedirebbe alla palla di essere un omogeneo tondo di caucciù.
Sulla Terra l’acqua è acqua e si trova ovunque. L’aria è aria e spira in tutti i venti. Il suolo in cui gli alberi crescono, e che gli animali e gli uomini calpestano, è lo stesso suolo. L’umanità è la stessa ovunque e comunque. se una donna esquimese si accoppia con un aborigeno australiano e i due prolificano, non generano certo muli ma esseri umani perfetti. L’unica cosa che cambia è la bandierina degli interessi, delle religioni, delle ideologie, insomma cose finte, cose di cui si può fare benissimo a meno e che invece determinano i comportamenti sino al punto di spingere l’uomo a uccidere, distruggere, dissociare…

Poveri umani… mettono i missili e gli antimissili, prevaricano le popolazioni più povere ma ricche di materie prime, sparano giaculatorie e stupidaggini nei templi e nelle assemblee, nelle camere e nei senati, e ingabbiano i recalcitranti… bravi! Ma ditemi come può essere motivo di disuguaglianza abitare in un luogo piuttosto che in un altro, credere in un’illusione piuttosto che in un’altra; non vi siete accorti, umani, che il pianeta è uno solo? E tra l’altro pure malandato, in seguito ai bistrattamenti subiti negli ultimi decenni? I mali che impediscono di prendere consapevolezza di abitare lo stesso luogo e di essere membri della stessa famiglia hanno un solo nome: ignoranza!

Ignoranza che poi diventa rapacità ed egoismo, conflitto fra individui e nazioni, disparità economica e razziale, divisione in classi, violenza verso gli “altri”, stupida arroganza di ritenersi nel bene. Da una parte una bisteccona sanguinolenta e dall’altra un minuto chicco di riso, da una parte la furbizia e dall’altra l’ingenuità, da una parte il valore aggiunto e dall’altra la carenza.

Osservando bene le cose, scopriamo però che… la Terra è rotonda… ci stiamo tutti dentro!

Paolo D’Arpini

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La matrice culturale originaria indoeuropea e la separazione tra spirito e materia nelle religioni di origine giudaica (ebraismo, cristianesimo ed islam)

Tra le differenze d’impostazione e di espressione che contraddistinguono le religioni orientali e quelle di matrice giudaico-cristiana, va considerata l’aderenza alla vita e la non differenziazione tra spirito e materia, che prevale presso gli asiatici, mentre in Europa ed in Medio Oriente prevale la condanna dei piaceri mondani e la separazione tra spirito e materia.

La causa di questo scollamento dal quotidiano nella cultura occidentale è una conseguenza della conversione ai dettami biblici (e sue elaborazioni in termini cristiani e maomettani) che ha provocato la progressiva corruzione e cancellazione della originaria visione naturalistica indoeuropea. Questa sostituzione di valori si riflette anche in tutte le forme artistiche e culturali, in particolare nell’assoluta iconoclastia musulmana ma anche nelle fissazioni moralistiche cristiane, sia protestanti che cattoliche od ortodosse, che tendono a descrivere il male della vita e della sessualità, imputando alla “mondanità” la ragione della sofferenza – a partire ovviamente dal cosiddetto peccato originale- e proponendo come soluzione la mortificazione della carne, l’ascetismo e la rinuncia (al fine di potersi guadagnare la gioia in un aldilà).

Nelle manifestazioni rappresentative di tale “mortificazione” vi sono anche le auto-fustigazioni in pubblico, la scalata di santuari a ginocchioni, l’automutilazione, le sceneggiate infernali, le vie crucis, le torture e gli olocausti inflitti nelle piazze agli eretici, alle donne, etc.

Insomma lo spettacolo religioso in occidente può essere definito un “teatro dell’orrore”, a sfondo sadomaso. Ma non è mia intenzione continuare a descrivere l’alienazione che pervade l’Europa dopo l’adozione di certe “religioni” aliene. Posso solo rimpiangere l’antico spirito bacchico e dionisiaco scacciato (per sempre?) dal nostro DNA.

Per fortuna la rappresentazione religiosa in Oriente ha mantenuto -malgrado le perfide influenze esportate in India ed in Cina da missionari vittoriani e cattocristiani- la sua caratteristica originaria di glorificazione e celebrazione dell’esistenza. Il teatro, la danza, le processioni, l’arte in generale, tutto trabocca di sensualità e di gioia di vivere.

Sulle scene indiane vengono rappresentati gli amori di Krishna, le adivasi danzano lasciviamente nei templi, i cortei sono un’orgia di colori, suoni e godimento. Persino i funerali vengono celebrati con grande ricchezza e dispendio di musiche e di lauti pranzi.

Tra l’altro parlare di teatro “religioso” indiano in un certo senso è improprio. Poiché in esso non si espongono norme, precetti od episodi metafisici astratti. Si mettono in scena episodi delle epiche classiche, il Ramayana ed il Mahabarata ad esempio, che potrebbero corrispondere alle storie mitologiche dell’Iliade e dell’Odissea. Storie di re, di amori, di guerre, insomma di vita vissuta. Certo queste rappresentazioni offrono anche una “morale” ma è sempre una morale mondana, non religiosa come noi intendiamo la religione. Tant’è che in India non esiste una traduzione esatta per “religione”, esiste solo il “sanatana dharma”, la legge eterna del corretto agire nel mondo. Poiché la parola religione sta a significare “riunire ciò che è diviso” mentre per la filosofia indiana non c’è mai stata alcuna divisione. Il tutto è sempre presente nel tutto.

Questa è anche una vera espressione di laicità, una laicità pura, naturale, non macchiata da una rivalsa nei confronti del pensiero religioso o spirituale. Per questa ragione durante gli spettacoli teatrali ai quali ho assistito in India, a volte della durata di parecchie ore, se non giorni, sembrava di rivivere nel presente quel “pathos” delle vicende vissute dai grandi eroi ed eroine, incarnazioni divine, che veniva riportato sulle scene. Scene che spesso erano la strada, il tempio, un antico monumento, un bosco, raramente un teatro (quest’ultimo una invenzione della cultura occidentale che tende a racchiudere ed ad astrarre il vissuto dal suo contesto naturale).

In un certo senso lo stesso modello è espresso anche nelle funzioni “teatrali” dell’antica Cina, basate sulla musica e sulla cerimoniosità ma non indirizzate ad una ipotetica divinità, bensì agli antenati od alle forze della natura. Per contraltare assistiamo poi all’assoluta mancanza di etichetta o formalità in quelle “rappresentazioni”, se così possiamo chiamarle, che avvenivano nei monasteri Chan, in cui tutto era recita assurda, con il fine di risvegliare i ricercatori alla presenza cosciente del qui ed ora. Quando leggiamo le storie di vita nei monasteri cinesi non possiamo fare a meno di riconoscere la “pazzia” spirituale che diventa “spettacolo”.

Ricordo, ad esempio, la storia di una bellissima monaca, chiamata Ryonen, vissuta in un monastero zen. Un monaco che stavo nello stesso monastero si innamorò perdutamente di lei ed una notte si introdusse furtivamente nella sua stanza. Ryonen non si turbò affatto ed accettò volentieri di giacere con lui. Ma l’indomani quando l’innamorato si ripresentò ella disse che in quel momento non era possibile… Il giorno seguente si svolgeva nel tempio una grande cerimonia per commemorare l’illuminazione del Buddha alla presenza di una gran folla e di parecchi monaci venuti da lontano. Ryonen entrò senza indugi nella sala colma e con totale naturalezza si pose di fronte al monaco che diceva di amarla, si denudò completamente e gli disse: “Eccomi, sono pronta, se vuoi amarmi puoi farlo qui, ora…”.

Il monaco se ne fuggì per non far più ritorno mentre Ryonen con quel gesto aveva reciso le radici di ogni illusione. La storia di Ryonen e la sua totale adamantina aderenza alla verità può essere presa ad esempio lampante di cosa sia il “teatro religioso” nella tradizione zen. Con il metodo teatrale zen, infatti, in considerazione che tutto è una “commedia”, non vale celare le pecche e i difetti, le antipatie e le simpatie (spesso immotivate). Il render complici gli altri anche “forzosamente” serve a rompere quel muro di ghiaccio che solitamente si instaura fra persone che non si conoscono, o che stentano a manifestarsi liberamente.

Insomma il teatro religioso in Oriente attinge ancora direttamente alla vita di ogni giorno, in un certo senso potremmo definirlo un “teatro di strada”. In particolare penso a quella rappresentazione teatrale giapponese chiamata Kabuki, che ritengo collegato all’esperienza dello zen, e il significato di questo termine è quello di “provocazione” cioè si intende provocare mettendo in “scena” anche esplicite allusioni sessuali. Ka che sta per canto, bu è ballo e ki conoscenza tecnica. Quindi si riassume in un insieme inscenando una recita che oltre a rispettare le origini (cioè provocare o essere una rappresentazione realistica) prevede cambi d’abito repentini (che vengono agevolati dai “servi di scena” ed è una pratica chiamata bukkaeri) perché sotto quelli indossati, che si lasciano cadere, ce ne sono altri, a significare il “cambio” (non solo nell’azione ma nel ruolo dell’attore) e quindi delle diverse funzioni vitali.

Tempo fa lessi l’autobiografia di un attore giapponese (di cui purtroppo ho dimenticato il nome) in cui egli narrava le peripezie vissute per compiere lo straziante destino dell’attore, le parti strane, le umiliazioni, la fame, la fatica, le scomodità, gli applausi, i fischi e tutte il resto.. mi sembrava di leggere la vita di un santo… Io stesso -che sono un attore e regista dilettante- misi in scena, per strada o in luoghi all’aperto od in grotte, diverse storie zen che avevano lo scopo di trasmettere la consapevolezza che la verità è presente in tutto quel che ci circonda. Certo, come fanno i maestri zen, anche attraverso bastonate psicologiche od anche reali.

Questo perché ho notato che parecchia gente in Europa solitamente vive con una etichetta di rispettabilità e di santità artificiosa. Le persone sovente assumono dei comportamenti falsi, mettendo in risalto gli aspetti convenienti della propria personalità od oscurandone altri.

Mi auguro che la freschezza del teatro d’Oriente possa ancora una volta contagiare le menti libere d’Europa, mostrando loro lo squallore dello spettacolo finto trasgressivo del cinema hollywoodiano o peggio ancora delle sacre rappresentazioni bacchettone della pseudo cultura occidentale. Una cultura corrotta prima dalle perversioni religiose e poi da un laicismo materialista che tende a trasformare l’essere umano in un robot, cancellandone lo “spirito”.

Paolo D’Arpini

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Calcata Calcutta Kolkota… Anzi no, Treia!

Recentemente un caro amico di Treia, Giampaolo Damiani, ha postato su facebook un album di foto su Calcata (*) con la nota “questo è il paesello natio di Saul”. Sono rimasto meravigliato perché nemmeno sapevo che egli ci fosse andato. Beh, debbo precisare che Calcata non è il mio paese natio ma uno dei luoghi in cui ho vissuto più a lungo, per circa 33 anni, e che ha marchiato la mia vita in modo indelebile. Nella Home del sito del Circolo Vegetariano di Calcata potete leggere qualcosa su questa combinazione “Paolo-Calcata” (**)

In verità, come dissi a Giampaolo, se avessi saputo del suo viaggio gli avrei chiesto un passaggio. Ormai visito molto raramente la mia ex patria anche se tutto sommato ho ancora dei legami con il posto, un figlio, alcuni amici e tanti ricordi. A dire il vero allorché nel 2010 lasciai Calcata per venire ad abitare a Treia, grazie alla mia compagna Caterina Regazzi, me ne andai senza un rimpianto, come quando ci si separa da una moglie tradita o traditrice.

Il mio “sogno” di poter vivere in una comunità ideale, che avevo cercato di realizzare a Calcata si era praticamente trasformato in un brusco risveglio. Certo l’idealità stessa è una illusione figurarsi poi quando l’illusione si tramuta di delusione. Ma il sognare fa parte della nostra natura, diciamo che è una caratteristica umana, per cui abbandonata Calcata reimpostai il mio sogno idealistico su Treia.

Dopo la lezione appresa non proietto più le mie speranze sul luogo in se stesso o sulla comunità che ci vive, l’idealità è diventata un’aspirazione a perfezionarmi ed a vivere nel modo più consono in questo luogo in cui mi trovo. Insomma dall’esternalizzazione sono passato all’interiorizzazione e dal voler cambiare il mondo all’adattarmi alle condizioni in cui sono, senza pretese senza aspettarmi risultati, rispondendo alle situazioni nel modo più sincero e spontaneo possibile, come la mia natura mi indica volta per volta. Questo è il regalo che Treia accogliendomi mi ha fatto!

Ma visto che siamo in tema di “memorie” riporto qui di seguito un articolo di qualche anno fa in cui spiegavo il mio rapporto con Calcata. Il mio “famolo strano” durato 33 anni.

Calcata Calcutta Kolkota…

Molte volte ho evidenziato la somiglianza glottologica fra la nostra Calcata e la Calcutta del Bengala. Infatti cercando su Google alla voce Calcata appare anche Calcutta, dato che entrambe si pronunciano allo stesso modo. Ma la differenza è chiaramente etimologica, infatti nel 1800 allorché gli inglesi si insediarono nel golfo del Bengala costruirono una città che potesse rappresentare l’impero in quelle lande.

La città fu edificata sulle rive del fiume Gange nei pressi di un villaggio consacrato alla Dea Kali, “Kali Kat” (luogo di Kali), perciò la nuova città prese il nome da quel luogo
preesistente ma siccome gli inglesi non sapevano (o non volevano) pronunciare chiaramente quella parola, per loro ostica, traslitterarono il nome in Calcutta (pronunciando Calcata).

Passarono gli anni e siccome una lingua è in perenne mutazione gli indiani che mal pronunciavano l’inglese ulteriormente storpiarono la dizione facendo diventare la città Kolkota (che presentemente è stata ufficializzata anche nelle carte geografiche).

Diversa è la storia della denominazione della nostra Calcata, che significa “schiacciata”, essendo un acrocoro più basso di tutto il pianoro circostante ed invisibile alla vista, infatti chi visita Calcata vedrà che da qui non si osserva alcun orizzonte se non il cerchio delle piane che circondano il paese. In dialetto locale il posto veniva chiamato “Corgata” ma evidentemente la pronuncia fu italianizzata nella oggi familiare Calcata. Ma i suoi vecchi abitanti continuarono a chiamarsi corgotesi o cargatesi.

L’orografia di un territorio contribuisce a creare anche la sua storia, perciò il fatto che Calcata (in questo caso la nostra Calcata) fosse nascosta ed isolata per secoli e secoli contribuì alla conservazione di una mentalità e di un sistema di vita. Sino agli anni’60 del secolo scorso il paese era chiuso in se stesso, non avendo vie di comunicazione che lo congiungessero al resto della Tuscia, ed i suoi abitanti erano un clan circoscritto (una “tribù perduta”direbbero gli ebrei..) con propri costumi e regole, insomma la piccola comunità era doppiamente “cargata” (calcata) sia in senso metaforico che geografico….

Ed ecco che, a partire dai primi anni ’80 del secolo scorso, per mia “colpa”, e di alcuni altri, improvvisamente il paesino si vide proiettato nei media e divenne pian piano un “villaggio di culto”, un culto alternativo e stranamente a metà strada fra il vecchio ed il nuovo, anzi il nuovissimo…. Giacché Calcata è divenuta il simbolo di un modello alternativo di vita in continua fase sperimentale….. il motto che avevo lanciato per significare il valore di tale sperimentazione sociale era: “Una, cento, mille Calcata!”

Mi sovviene ora di un detto di T.A. Edison, l’inventore della lampadina elettrica, il quale dopo aver compiuto innumerevoli esperimenti, tutti falliti,giunse al millesimo tentativo e disse al suo gruppo di lavoro, a mo’ d’incoraggiamento: “stavolta è la volta buona, questo esperimento riuscirà, ne sono sicuro…” (ricordo un altro evento che accadde prima di una difficile battaglia in Giappone in cui il principe, sfavorito dal numero, lanciò in alto una moneta dicendo ai suoi soldati “se viene testa vinceremo se viene croce saremo sconfitti” uscì testa ed i guerrieri entusiasti vinsero facilmente la battaglia, subito dopo l’ufficiale di campo si recò dal condottiero e gli annunciò “non ci si può opporre al destino, abbiamo vinto!” al che il duce esclamò “davvero…?” e gli mostrò la moneta con due teste…!), scusate la divagazione, stavo parlando della lampadina… ah, sì, quel millesimo esperimento riuscì e nacque la prima lampadina elettrica…

Ma per la creazione della società ideale di Calcata non si è mai arrivati a quel punto “critico”, in cui la va o la spacca, siamo anzi ben lungi, e la sperimentazione è ancora molto imperfetta…

Paolo D’Arpini

*) Album fotografico di Giampaolo Damiani – https://www.facebook.com/photo.php?fbid=153162082540573&set=pcb.153173222539459&type=3&theater

**) Home del sito: http://www.circolovegetarianocalcata.it/


Ed ora vivo qui, a Treia!

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THE U.S.A WALL

THE U.S.A WALL

The border between Mexico

and the United States

is an enormous and shameless prison

both sides of the Wall.

The Wall is a barrier to stop

the peons from the colonies

from entering the U.S.A Empire.

The Wall will be present

in the history of the nations

as a beastly shout of warning,

a visible and silent frightening

message to the immigrants arriving

with aspirations to the fictional

“American Dream”.

The Wall is an artifact to bind

guards and prisoners in the same jail.

It promotes a regression of time

to feudal greed, and peasant poverty.

The Wall will increase smuggling,

traffic, and slavery of human beings.

Inside the Wall there will be buried

an American heart of steal

at the side of another heart

of the workers blood.

They will be united

in this no one’s tower,

in no one’s land under

a horizon without sky,

like two transient tears

in the desert.

Teresinka Pereira

………………..

Testo italiano

Il confine tra il Messico
e gli Stati Uniti
è una prigione enorme e sfacciata
da entrambi i lati del muro.

Il muro è una barriera per fermare
i peoni delle colonie
dall’entrare negli Stati Uniti.

Il muro sarà presente
nella storia delle nazioni
come un grido bestiale di avvertimento,
uno spaventoso visibile e silenzioso
messaggio agli emigranti in arrivo
con aspirazioni all’immaginario
“Sogno americano”.

Il muro è un artefatto da legare
guardie e prigionieri nella stessa prigione.
Promuove una regressione del tempo
all’avidità feudale e alla povertà contadina.
Il muro aumenterà il contrabbando,
traffico e schiavitù degli esseri umani.

All’interno del muro saranno sepolti
un cuore americano rubato
al fianco di un altro cuore
del sangue dei lavoratori.
Saranno uniti
in questa torre di nessuno,
nella terra di nessuno sotto
un orizzonte senza cielo,
come due lacrime transitorie
nel deserto.

Teresinka Pereira

(Traduzione di Jovanna Guzzardi)

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