Effetti ricorrenti… sogno o son desto? Il tribuno Publio Vinicio Nerviano scrutava con animo angosciato l’orizzonte attorno ad Aquileia….

Lunario Paolo D'Arpini 9 ottobre 2011

Il tribuno Publio Vinicio Nerviano scrutava con animo angosciato l’orizzonte attorno ad Aquileia. L’invasione dei Visigoti di Alarico era data per certa e, in base alle informazioni delle spie, li si aspettava da un momento all’altro.

Egli sapeva che le forze di cui disponeva, messegli a disposizione da un impero romano ormai in disgregazione, erano di gran lunga insufficienti a respingere un attacco di quei barbari spietati. Così lui, insieme a tutti i suoi soldati, sarebbe morto.

A 47 anni forse si poteva dire che la maggior parte della sua vita fosse alle sue spalle. Aveva bevuto, aveva mangiato, aveva amato, aveva combattuto, aveva cacciato, si era divertito. Ma, rifletteva, che cosa restava di tutto ciò? Non aveva moglie, non aveva figli, non aveva fratelli: che traccia sarebbe rimasta del suo breve passaggio su questa terra?

Tanti volti e tanti nomi che gli erano passati davanti e che ora egli esaminava uno ad uno, per capire se vi fosse stato qualcuno a cui sarebbe mancato, che lo avrebbe lodato dopo la sua morte, che avrebbe detto: “questo era un uomo che valeva” . Eppure non ne trovava neanche uno. E questo, forse, era per lui motivo di angoscia ancora maggiore di quella di sapere che di lì a pochi giorni, forse poche ore, sarebbe andato a raggiungere i suoi antenati.

Il sole spandeva i suoi raggi morenti di un tardo novembre, quando egli convocò il centurione Marco Cornelio Crispino per raccomandargli di rafforzare la guardia, di raddoppiare il numero di sentinelle per quella notte che, egli presagiva, sarebbe stata l’ultima della sua insignificante vita.

Dopo avergli impartito minuziose disposizioni lo congedò con un moto di simpatia e compassione al tempo stesso. Povero Marco! Non aveva neanche trent’anni, era così zelante e così entusiasta di tutto: che peccato che un giovane così promettente non sarebbe mai arrivato là dove avrebbe potuto!

Si coricò, stanco non fisicamente, ma stanco di tutto e di niente.
Il sonno non tardò a passare dalle palpebre alla mente.
Il buio invadeva tutto: Aquileia, Roma, Publio Vinicio Nerviano, e il mondo intero.

Sogni: ombre, visi, fantasmi di vite non vissute eppure sempre presenti attorno a noi, dentro di noi.

Il passaggio successivo lo vedeva in una campagna piena di sole, sui castelli romani, dopo il trionfo che gli era stato tributato per la sua schiacciante vittoria sugli invasori, al comando di truppe demotivate e inferiori di numero. I cristiani avrebbero gridato al miracolo, invocato il nome di un improbabile salvatore. Ma i miracoli non erano per Roma e per un romano, che poteva contare solo sulle sue forze e sul favore degli dei, spesso capricciosi, se non si sapeva come ingraziarseli. Per questo il trionfo era stato ancora maggiore, ancora più meritato. Ed ora il riposo, il godimento di uno straordinario momento della sua vita, nei suoi terreni dell’agro laziale.

Certo, lo schiavo sul cocchio aveva sussurrato al suo orecchio la frase di rito: “memento mori”, ma era stata giustappunto quello, una frase di rito e niente più.

Si ritrovò così invischiato in una girandola di popolarità, di feste e bagordi, di clientelismi politici, di rispettose quanto adulatorie riverenze. In breve tempo ebbe il voltastomaco di tutto ciò. Il colmo però fu quando una notte gli si offerse una matrona che si era recata da lui col capo coperto; la conosceva appena, sapeva essere la moglie di un suo rivale per la carica di pontifex cittadino. Lei, non appena fu entrata in casa, gli si buttò tra le braccia, discinta, rivelando le sue bellissime nudità. Non fu lui che prese lei quanto lei che lo prese, lo risucchiò, lo prosciugò e lo risputò. Perchè subito dopo l’atto, accompagnato da falsi sospiri d’amore e da oscenità da postribolo, si sedette sul letto e come se niente fosse gli disse:
“Ora ritirerai la tua candidatura a pontifex; mio marito è quello che deve vincere. Se non lo farai, ti accuserò di avermi stuprata”.

Nel sogno, il crollo di innumerevoli palazzi accompagnava la sua fuga interminabile fra i meandri dei vicoli più squallidi dell’Urbe, dove cercava riparo in questa o in quella casa: ma nessuno lo conosceva, nessuno lo accoglieva.

Si svegliò urlando, zuppo di sudore in un calore inesistente: Aquileia era molto fredda in quel periodo dell’anno. Stette in ascolto, col cuore in gola, aspettandosi di udire clangore di spade e urla di guerra; ma solo il silenzio avvolgeva la notte.

Si sentì sollevato, per un istante; per poi ricordarsi dov’era e quando era, e riprecipitare nella cupa depressione che lo accompagnava già da un bel po’ di tempo. Ma appoggiò la testa sul guanciale; si girò e si rigirò, finchè non sopraggiunse di nuovo il sonno.

La grigia luce dell’alba illuminava debolmente la scena che ora gli si prospettava davanti agli occhi chiusi.

Camminava fra i morti in battaglia disseminati ovunque, tanto che non sembrava esserci nessun altro vivo oltre a lui. Aquileia era persa: da lontano si udivano le selvagge grida di giubilo dei rozzi barbari certamente intenti al saccheggio e alla violenza.

“Non essere triste” gli si rivolse una voce. Si accorse che la voce veniva dal suo stesso corpo, scomposto e oltraggiato, disteso fra i tanti. Dunque anch’egli era morto!

“Ma no, che morto” gli si rivolse il suo cadavere, alzandosi da terra con un sorriso. Gli parve che il suo io ormai perduto fosse più giovane e leggero di quell’anima ingombra di pensiero che occupava il suo corpo in quel momento.
“Dove sei? Dove sono? “ Gli chiese lui.
“Dappertutto” rispose il suo stesso io. E guardandosi intorno, egli vide che ognuno dei cadaveri sparsi sul campo di battaglia aveva il suo viso.
“Sono morto o sono vivo? Sogno o son desto?” gridò lui, al culmine della confusione.
“Non capisci che quella che chiamavi vita era una lenta morte? E quello che chiami essere desto è più profondo di qualsiasi sonno, più stolido di qualsiasi folle sogno, o meglio incubo?” Rispose l’altro da sè, che era poi l’altro suo sè.

Si risvegliò di colpo a queste parole: ma non era sul suo letto, bensì sul campo di battaglia, stringendo una daga insanguinata, mentre le grida di giubilo dei suoi soldati lo raggiunsero e in lontananza vide le cavalcature dei Visigoti allontanarsi rapidamente.
“Victor et dux!” inneggiarono i suoi legionari sollevandolo di peso per portarlo in trionfo, sotto lo sguardo euforico di Marco Cornelio Crispino.

Ma che era successo? Possibile che la realtà delle cose gli fosse passata davanti senza che lui nemmeno se ne accorgesse? Eppure era proprio così, perchè quelli erano i suoi soldati, quello era il suo corpo, quella era la sua vittoria.

Il capogiro che lo travolse gli fece imporre ai suoi, con un secco ordine, di rimetterlo a terra. Se ne andò quasi di corsa alla sua tenda, sotto lo sguardo sbalordito delle sue leali truppe e del suo più fidato centurione. Il voltastomaco che lo aveva preso al pensiero di ritrovarsi di lì a poco a Roma, in un bagno di folla fremente e adorante lo costrinse a svuotarsi di quel poco che aveva mangiato.

Si sedette tremando come una foglia, scosso da brividi di freddo, di paura, di ansietà, di sconcerto. Tutto il suo mondo stava crollando, proprio ora che il sogno più ardito e apparentemente più irrealizzabile si era concretizzato come per magia nella sua mediocre vita. Non capiva, non capiva. Ma da tutta quell’oscurità della mente, si fece pian piano largo un pallido albeggiare, che sbirciava come da un angolo del cervello quel nuovo Publio Vinicio che lui sentiva nascere dentro di sè.

Troppo nebbioso era quel mattino, troppo offuscata la luce di quell’alba, per permettergli di distinguere chiaramente ciò che aveva dinanzi a sè.

Fu solo quando la freccia scoccata dall’ultimo dei barbari in ritirata squarciò la tenda e gli penetrò nel cuore che davvero comprese, piegando le labbra in un sorriso mentre moriva.

Simone Sutra

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