Felice “Checco Lallo” Ricci da Vetralla, morto senza eredi d’arte – Omaggio alla memoria dell’ultimo pignattaio ad personam….

Ebbene sì, quell’artigiano era veramente speciale, ed avevo cercato -quando i tempi erano ancora utili-  (nei primi anni ‘90 del secolo scorso) di sensibilizzare la Provincia di Viterbo ad istituire dei corsi, ed una scuola, per il mantenimento dell’antica arte ceramica “casereccia” della Tuscia.

Gianni Tassi ed Evandro Ceccarelli  forse ricorderanno la lettera che inviai al proposito e che fu pubblicata sulle pagine del Messaggero e del Corriere di Viterbo, in particolare sul Messaggero fu pubblicata la foto del nipote di Felice Ricci che lavorava al tornio.

Conobbi l’opera di Felice Ricci sin dal 1976, anno in cui mi trasferii a Calcata. Già allora avevo raccolto alcune sue ceramiche per il mio uso domestico: brocche per il vino, pentole in coccio per i fagioli e per i minestroni da far cuocere vicino alla brace ed in mezzo alla cenere calda del camino.

Alfine quando fondai il Circolo vegetariano VV.TT. sentii il bisogno morale di arricchirlo con le stoviglie “caserecce” dell’antico forno ceramico di Vetralla, quello appunto dei Fratelli Ricci… Ma dei fratelli era rimasto solo Felice che insegnava il mestiere al nipote, il quale più tardi preferì trovarsi un lavoro “normale”, purtroppo l’artigianato non é più remunerativo in Italia…

Rammento la prima volta che entrai in quella caverna lunga e buia in cui il Sor Checco (come era chiamato stranamente Felice Ricci) alla fioca luce dell’ingresso su strada pedalava sul suo tornio antico, un tornio usato prima di lui dal padre e dal nonno. Per me, ancor giovane osservatore cittadino, da poco immerso nel mondo rurale della Tuscia, quella scena restò impressa per sempre nella mente… L’antro del mago, sì pareva di stare nell’antro di uno stregone. In fondo in fondo alla grotta una fornace accesa, che bruciava legna, da un lato buio un piccolo androne nascosto in cui le suppellettili cotte stavano a riposare su scaffali traballanti. Scaffali pieni di opere miracolose…. e semisconosciute. “E questo cos’é” – “Un orcio” – “E questo?” – “Un tripode in coccio..”. 

Ammassata in tinozze stava una quantità di creta rossiccia a decantarsi.. ma evidentemente veniva filtrata alla meno peggio poiché tutte le ceramiche mostravano pezzetti di pietruzze sporgenti sulla superficie.

Infine decisi di commissionare a Mastro Checco  la stoviglieria originale con cui avrei servito i soci del Circolo. Volevo qualcosa di speciale, qualcosa che fungesse ai miei scopi di ammannire un pasto vegetariano unificato in un solo piatto. Spiegai perciò quel che volevo a Mastro Checco e lui -sempre incollato al tornio- levigava le forme di una nuova scodella larga, non troppo fonda né troppo piatta… appena appena bordata al lato con un rialzo di due dita…. Finche gli dissi: “Ecco così va bene!”.  Ed i bicchieri in coccio, egualmente studiati “ad personam”, minuti e tondeggianti da poterli tenere nel palmo della mano ma abbastanza fondi da poter contenere una buona sorsata di vino. E poi dei bei piattoni di portata e delle caraffe di varie forme e ciotolini e ciotoloni, piattini e piattelli, vasetti e vasi da pinzimonio.. insomma un vero e proprio armamentario adatto ad una antica taverna etrusca. Su tutte le opere campeggiava la scritta Circolo VV.TT. Calcata, eseguita a mano dal Sor Checco con caratteri svirgolati usando una vernice naturale che a cottura ultimata diventava verdognola…

Già da diversi anni al Circolo abbiamo interrotto ogni attività culinaria, ma quando facciamo delle rimpatriate fra vecchi amici ancora servo i cibi vegetariani da ognuno portati su quelle vecchie ciotole, magari un po’ sbeccate, magari un po’ annerite… ma chissà perché il cibo sembra più buono…

Paolo D’Arpini

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