“Stonehenge, visita ancestrale del 21 giugno…” – Racconto magico di Simone Sutra

Lunario Paolo D'Arpini 10 marzo 2010

Sulla porta di casa 
 

“Chiamami , ti prego”.

Per Loretta Pigozzi, segretaria d’azienda, impiegata alle dipendenze della premiata ditta MCC (Manlio Cesari Commutatori), divorziata con due figli ormai grandi, quei messaggi lasciati nella segreteria telefonica con una frequenza e regolarità sconcertante da qualche giorno a quella parte, erano un mistero.

Tanto per cominciare, chiamare chi? La voce le era sconosciuta, il numero del telefono non appariva, e non veniva detto null’altro.

Uno scherzo? Un molestatore? No, perché la voce era femminile. E quanto allo scherzo…chi mai avrebbe potuto volerle fare uno scherzo, chi mai ci teneva abbastanza a lei perfino per prenderla in giro? E poi…c’era qualcosa di insolito in quella voce: dolce e suadente, percorsa da un’emozione,  un inquieto pulsare di trepidazione. Come se qualcuno, chissà chi, una donna la cui voce risuonava lontanissima, si preoccupasse per lei.

Lei? Donna insignificante di 43 anni, dall’aspetto dimesso e dalle speranze tramontate? Donna  che non aveva amicizie se non quelle dell’ambiente di lavoro – che poi amicizie non si potevano nemmeno propriamente definire – che non usciva quasi mai se non per recarsi al lavoro e al supermercato. I suoi figli si facevano sentire ogni tanto, e non erano certi i tipi da organizzare uno scherzo del genere, a parte il fatto  che erano entrambi maschi. 

E poi, da qualche giorno, cioè più o meno da quando erano iniziati i messaggi lasciati in segreteria telefonica, ogni tanto sentiva bussare alla porta. Andava  a vedere e non c’era nessuno. Aveva persino lasciato, registrato nella risposta della segreteria, il numero di telefono del lavoro, non si sa mai la chiamassero là l’avrebbero trovata più facilmente. Ma niente. Però al telefono di casa i messaggi continuavano a venir registrati.

Le venne il dubbio che qualcosa non le funzionasse nella testa  il giorno che al supermercato le sembrò che una figura di donna, abbigliata in modo sommario, dopo aver attraversato proprio davanti a lei la corsia che stava percorrendo con il carrello della spesa, si fosse come vaporizzata nello scaffale dei prodotti. Non prima di averle lanciato un’occhiata enigmatica che le aveva scavato fin nel profondo, lasciandola, le era parso, nuda dentro.

Decise di consultare uno specialista, uno psichiatra.

Il dottor William Betz l’accolse amabilmente nel suo studio che sembrava quasi una capanna di pesca  più che un ambiente medico; si sentì subito a suo agio anche per l’aspetto gioviale del medico, che irradiava fiducia.

“Vede, signora Pigozzi” disse lui dopo che lei gli aveva esposto il caso, “a volte accadimenti come questi sono solo…come dire…un interruttore”.

“Prego?”

“Ma sì. C’è una parte di noi che è ansiosa di venire allo scoperto, di essere riconosciuta, realizzata. Magari consciamente non ce ne si rende nemmeno conto, ma questo non vuol dire che qualcosa, persino a nostra insaputa, prema dentro per venire alla luce”.

“Qualcosa di…male?”

“Oh! Signora mia, c’è davvero qualcuno al mondo che sia in grado di stabilire cos’è male e cos’è bene? Io no di certo! E poi, se ciò di cui stiamo parlando è parte di lei, come fa a essere “male?” A volte questo cosiddetto male è un vestito che gli altri ci gettano addosso, a volte siamo noi ad indossarlo più che volentieri: in fondo ci copre e ci esime dal mostrarci per quel che siamo. La verità è che noi siamo esseri dalle molte sfaccettature, e ciò che è bene per qualcuno può essere male per altri. Ma questo non deve preoccuparla: piuttosto, dovrebbe riconoscere che è la sua stessa energia interiore che ha messo in moto un processo che non può che portare ad un suo sentirsi più …integra, più… completa, se mi è concesso utilizzare un termine che molti miei colleghi stigmatizzerebbero. Insomma, la sua “anima” la sua psiche o inconscio che dir si voglia, le sta chiedendo spazio per realizzare in lei compiutamente un suo fine. Ecco, questo è un altro ragionamento che i miei colleghi disapproverebbero in pieno. Ma chi se ne importa?”

E, dette queste parole, un ampio sorriso gli si disegnò in volto, mentre lui stesso sembrò come assentarsi.

Fu allora che lei la vide. Era proprio là, alle spalle del dottore (che era diventato trasparente), al centro di un quadro che ritraeva una scena bucolica in qualche contesto nordico: ma era proprio lei, e la fissava con lo stesso sguardo indagatore della donna del supermercato. Lei sbiancò, e il dottore se ne accorse. Si girò, vide ciò che lei stava guardando e sembrò capire.

“E’ proprio vero, Loretta: qualcuno la sta chiamando. Le dia retta”

“Ma come faccio? Come potrei contattarla se non so chi è, non so dove sta, non ho nemmeno il suo numero di telefono?? Non so nemmeno se è di carne ed ossa o se, come dice lei, è solo una mia creazione !”

“Nulla si crea, e nulla si distrugge, questo ce lo dice la scienza: tutto semplicemente si trasforma. Se qualche dinamica sconosciuta è già presente in noi, nel momento in cui siamo pronti ad accoglierla nella nostra vita assume delle sembianze che noi possiamo riconoscere, magari non razionalmente, come le dicevo prima. Io non ho mai detto che è lei che ha creato tutto questo. Ho solo detto che una parte di lei si sta facendo riconoscere: tutto qua.”

“In ogni caso, sono sempre in alto mare”

“Lei dice? Mmmmhhh…vediamo un po’: la donna nel dipinto è davanti a un cerchio di menhir, di strutture megalitiche…le dice niente il nome di Stonehenge?”

“Ahh…mi sembra di aver letto qualcosa in proposito, qualche tempo fa”

“Molto tempo fa?”

“No, non direi…è una rivista che mi è capitata sotto gli occhi mentre ero dal dentista. Ma ..adesso che ci penso, credo che sia stato più o meno il giorno del primo messaggio telefonico”

Il dottore, o meglio, William Betz, le sorrise senza dir niente.

Un mese dopo Loretta era all’aeroporto, diretta in Inghilterra. Si era presa due settimane di ferie, incorrendo nelle ire del capufficio perché si era in un periodo di intenso lavoro, correndo anche il rischio di rendersi malvista dalla dirigenza. Però si era detta: “No more Mr. nice guy” parafrasando la famosa canzone. Basta con la grigia esistenza  da sorcetto di campagna: era ora di mollare gli ormeggi e di lottare  per prendersi responsabilità della sua vita, o meglio di quella parte della sua vita che adesso reclamava la sua attenzione. C’era qualcosa dentro di lei che la incoraggiava in quella direzione, dandole una sicurezza di sé che non credeva di aver mai provato prima.

Fu sorpresa quando vide arrivare William Betz con un grande sorriso stampato in volto e un mazzo di fiori in una mano.

“Oh! Dottore…si è ricordato che oggi partivo…che pensiero gentile!”

“Però non è un pensiero da “dottore” ma da William…”

“Già, già….ma devo scappare, stanno chiamando per l’imbarco”

Lui la guardò  con intensità.

“Le auguro…anzi lo so che troverà quel che cerca…perché ce l’ha già dentro di sé”.

Il viaggio in aereo fu disturbato da forti turbolenze. Ma lei in fondo si sentiva tranquilla.

Arrivarono a Stonehenge poco prima dell’aurora. Era il 21 Giugno, l’alba del solstizio d’estate: la gita era stata programmata nei minimi particolari dagli organizzatori, di modo che si potesse vedere il primo raggio di sole solstiziale penetrare nel cerchio dal varco posto a nordest fra i megaliti e raggiungere, sul lato opposto della struttura, la cosiddetta “pietra del calcagno”, a circa ottanta metri di distanza dal cerchio costituito dai menhir.

Come sempre, ci si doveva accontentare di assistere allo spettacolo a una certa distanza dalle pietre, delimitate da transenne e guardate a vista dai custodi perché nessuno si avvicinasse troppo e soprattutto non le toccasse; però proprio allora si udì un enorme boato provenire dal parcheggio. Tutti, visitatori e custodi, si precipitarono d’istinto  in quella direzione.

Tutti tranne Loretta .

Lei, che aveva seguito l’avvicinamento a Stonehenge con delle pulsazioni interiori che rimbombavano nel cuore quasi assordandola.  Lei, solitamente così poco emotiva, che si sentiva inondare il petto di lacrime ingiustificate, scuotere il petto da singhiozzi incontrollabili. Lei, usualmente così posata e poco loquace, che si  sentiva sfuggire dalle labbra una dolce cantilena che non aveva mai sentito in vita sua, che  non riusciva a controllare il sorriso che le si ingigantiva sulla bocca. Lei, sempre così presente, così con i piedi per terra, che sentiva sfuggirle la ragione intenta a inseguire visioni leggere che le affollavano la mente. Lei, che non era più lei, ma un’altra lei.

Lei che adesso, in perfetta solitudine, si avvicinava raccolta nella veste della sacralità  alle antiche pietre che riconosceva come casa sua da sempre, baciate dal sole di una nuova stagione. Non fu sorpresa di rivederla là, appena al di là del cerchio di pietre, posizionata esattamente sul tracciato del raggio di sole dell’estate appena nata, vestita di quei pochi stracci, com’era quando le era apparsa nel supermercato. La guardava  e sorrideva, senza dire niente. Si avvicinò alla prima gigantesca pietra, sembrò esitare per un attimo; le rivolse un cenno d’invito, e disparve dentro di essa. Loretta si avvicinò, toccò con mano d’amore l’enorme lastrone, percependo tutte le scene di cui esso era stato testimone, tutto l’amore, il dolore; le vittorie, le sconfitte. L’eterna storia di un popolo vinto e scomparso che vive un po’ in tutti noi, perché non si è piegato all’indifferenza, né all’oblìo. Comprese che la non-esistenza non è assenza di vita, ma un’altra forma di vita.

Lei che decise di celebrare il suo ritorno al sempre con un folle girotondo solitario attorno al grande cerchio di pietre, come tante volte aveva già  fatto, molti e molti anni prima.

Sapeva che non avrebbe più smesso di danzare intorno alla vita.    

Simone Sutra – itdavol@tin.it

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