Giorgio Nebbia: “La terra brucia…” – Intervento di Marinella Correggia

In un boschetto-frutteto di collina, una piastrella che reca il nome di Giorgio Nebbia fa capolino fra i rami e i frutti di un melo appartenente a una varietà antica chiamata giustamente «abbondanza rossa», per caso originaria – come lui – dell’Emilia Romagna.

Un albero da frutto che silenziosamente dispensa ogni genere di regali (nutrimento, ossigeno, ombra, protezione del suolo, humus quando d’autunno cadono le foglie) è forse la dedica migliore alla generosità e all’ingegno di questo maestro che ha ispirato l’ecologismo di sinistra – il rossoverde dell’avvenire, il contrario della «ecologia delle contesse», per usare una sua ironica espressione, contrapposta al concetto dell’ambientalismo dei popoli.

Nella sua critica ambientalista del capitalismo a partire dalla scienza – davvero centrale – del ciclo delle merci, Giorgio continua a dimostrarsi così attuale che, come accade per altre figure storiche di veri grandi, pensiamo a Thomas Sankara e a J. C. Kumarappa, viene da chiedersi: «Cosa direbbe, suggerirebbe, farebbe lui adesso?». Succede così per chi è un riferimento anche sul piano umano: generoso com’era del suo sapere e del suo tempo, dotato di cuore oltre che di mente, privo di narcisismo e piccinerie.

Un universo di merci «sbagliate, violente» (per non dire di quelle oscene)

Partiva dalla sua materia di insegnamento, la merceologia, «l’universo degli oggetti fisici, materiali, venduti e acquisiti in cambio di soldi», che il capitalismo produce non per soddisfare i bisogni reali ma per tenere in moto a tutti i costi una spirale di distruzione. E di morte.

Le armi e il nucleare erano definite nei suoi scritti «merci oscene» perché «oltre ad assicurare il massimo profitto dell’imprenditore e ad aver bisogno di un continuo ricambio, misurano la propria efficienza in termini di effetti letali per umani, natura e beni materiali». Così come «merci sbagliate e violente» (insomma potremmo dire «mali» anziché «beni») erano nei suoi scritti le merci energivore, consumatrici di molte risorse, inquinatrici, poco durevoli: «semplici occasioni di ambizione e spreco».

«Si può ben dire che la crescita della quantità di oggetti è la principale fonte della violenza contro altri esseri umani, contro i paesi che possiedono nel loro territorio risorse naturali economiche e materie prime, contro gli altri esseri viventi, vegetali e animali e contro la natura inanimata: aria, fiumi, mare». E dunque «occorre avviare un grande movimento di liberazione per sconfiggere le ingiustizie portate dalle merci, fra gli esseri umani e nei confronti della natura». Un elenco infinito, quello delle merci violente, per natura e/o per via dei processi di produzione e smaltimento, da vietare, da riconvertire.

Già, la riconversione

Giorgio era così paziente e costruttivo da rispondere alle mie email (ma sono contenta di avergli spedito in una lettera postale alcuni fiorellini di campo, che piacevano molto alla Gabriella). I messaggi spaziavano dalle adesioni a iniziative contro le guerre a ogni genere di richiesta ambiental-merceologica.

Giorgio Nebbia firmò con convinzione nel 2016 su mia richiesta la petizione per la revoca delle sanzioni economiche europee ai danni del popolo siriano. Dopo qualche anno, nel 2018, eccolo fra i primi firmatari di un’altra petizione pacifista: «Chiediamo a tutte le persone di volontà buona e di retto sentire di far giungere la propria voce al Parlamento italiano affinché non rifinanzi le guerre e le stragi in Afghanistan e in Libia».

Del resto molto aveva scritto, Giorgio Nebbia, sulla «guerra come fonte di distruzione della vita, ma anche della natura», soffermandosi sulle guerre imperialiste, per esempio quelle del XIX secolo, «mascherate come rivendicazioni di diritti di popoli, di libertà e di indipendenza, ma in realtà motivate dalla fame delle risorse naturali ed economiche, dalle miniere di ferro e carbone europee, alle miniere di salnitro, alla gomma, all’indaco, guerre che richiedevano strumenti di distruzione sempre più raffinati, generosamente offerti da una industria chimica e meccanica in rapida crescita». E poi il grande massacro della prima guerra mondiale (1914-1919), «reso possibile in gran parte e con tanta drammatica “efficienza” dai successi dell’industria e del capitalismo: nuove armi, nuovi esplosivi, nuovi strumenti come l’automobile e l’aeroplano, consentirono distruzioni di beni materiali, di vite umane e di ricchezze naturali su una scala senza precedenti e uguagliata soltanto da quanto sarebbe avvenuto poco dopo nella seconda guerra mondiale (1939-1945)».

E ricordiamo che l’Italia degli ultimi decenni ha partecipato direttamente a diversi conflitti (andando a bombardare sulle teste altrui) e indirettamente a decine di conflitti in corso nel mondo vendendo armi; in Ucraina getta benzina sul fuoco anziché appoggiare gli sfori negoziali fin dall’inizio.

Il 10 maggio 2018 Giorgio Nebbia risponde per email su una difficile questione: l’assenza pressoché totale, in giro per il mondo, di progetti di riconversione dal settore militare a quello civile, appunto di fuoriuscita dalle merci oscene. L’occasione era l’impegno di gruppi sardi per la riconversione economica ed ecologica del territorio dove gravitava la fabbrica di bombe Rwm. Ecco la problematica risposta di Giorgio: «Un tema molto importante. Il lavoro “serve” per produrre merci o servizi. In maniera esasperata in una società capitalista ma in maniera (a mio parere) inevitabile anche in una società comunista, le materie prime e i salari si pagano con soldi ricavati vendendo merci o servizi. Chi fabbrica e vende armi, sia pure merci oscene, se smette di fabbricare armi deve fabbricare qualcosa con le stesse conoscenze dei lavoratori e con le stesse macchine, qualcosa che qualcuno sia disposto a comprare. Si fa presto a dire smettiamo di produrre bombe, o aerei da guerra, o pistole, eccetera, ma che cosa si fa fare ai lavoratori che si aspettano un salario per sopravvivere? Si fa presto a dire “facciano qualche altra cosa”, ma bisogna essere in grado di dire che cosa: profumi di lusso (che hanno un mercato all’estero e in Italia)? poltrone e sofa (il cui mercato è disperatamente saturo)? pannelli fotovoltaici (ma anche di quelli il mercato è saturo)? Supposto anche di far fare agli operai della RWM dei profumi di lusso, bisogna cambiare i macchinari e insegnare a dei metalmeccanici di fare boccette e miscele profumate. E per questo occorrono tempo e soldi. Per tutti questi motivi non mi risulta ci siano stati casi di “riconversione”; purtroppo per gli strumenti di morte “c’è mercato”, cioè compratori. Saltando di palo in frasca, se ci pensi bene la situazione è simile per le fabbriche inquinanti; pensa all’Italsider. Si fa presto a dire: a Taranto voglio l’aria pulita; Chiudiamo l’Italsider, smantelliamo le cokerie, laviamo le superfici dei parchi carbone, e con questo impieghiamo per qualche mese i 14.000 disoccupati a spese dello stato; gli altri li paghiamo per stare a casa, come diceva il tuo papà. Il proprietario, pur responsabile del disastro ambientale, non può pagarli perché non vende niente, e non può pagarli neanche se lo mettiamo in carcere per trent’anni. Che fare?».

Certo intanto si tratterebbe di fare prevenzione. Non iniziare nemmeno. Come per tutta la partita nucleare, «di guerra e commerciale», per usare la terminologia di Nebbia (in effetti, la dicitura «nucleare civile» nobilita…). E invece, dopo l’indicibile bombardamento atomico sulle città giapponesi e con la resa del Giappone finiva, e leggiamo le sue parole, «la spaventosa seconda guerra mondiale e iniziava l’era nucleare in cui stiamo vivendo, segnata da duemila test nucleari nell’atmosfera e nel sottosuolo, con relativa contaminazione radioattiva dell’ambiente, con 15 mila bombe nucleari ancora presenti negli arsenali a cui nessun paese sembra voler rinunciare e che con la loro stessa esistenza, rappresentano un continuo pericolo di estinzione della stessa vita del pianeta».

Il suo antico impegno era sfociato nei suoi ultimi anni nella proposta di un gruppo di scienziati ed esperti per lo studio di un mega programma di messa in sicurezza e neutralizzazione dell’immenso arsenale mondiale. Si sarebbe creato tanto lavoro; del resto per Giorgio Nebbia era imprescindibile trovare alternative occupazionali – oltre alla drastica riduzione dell’orario.

Quanto al nucleare commerciale, nel 2015 Giorgio Nebbia faceva notare il rapido oblio rispetto all’incidente alla centrale di Fukushima, avvenuto solo quattro anni prima. Alla fine degli anni 1970 era stato fra i pochi scienziati antinuclearisti alla conferenza nazionale sulla sicurezza nucleare, a Venezia. Aiuta a strutturare il movimento contro una forma di energia che «non è né economica, né pulita, né sicura», per ricordare il concetto che ripeteva sempre, spiegandolo nei suoi vari aspetti (si legga ad esempio su Altronovecento «Resurrezione del nucleare?» , del 2005).

Non è facile uscire dalle merci violente contro la natura e contro le persone. Nel suo importante articolo «Il secolo XX: per una rilettura ecologica»(disponibile sul sito della Fondazione Micheletti), Giorgio illustrava l’insufficienza di certe svolte nei processi produttivi: #1f497d;”>«Se per caso la violenza contro la natura comporta proteste, malattie, perdita di beni materiali e di denaro, il capitale può anche modificare le sue tecniche e i suoi processi, ma solo a condizione che ciò non comporti una violazione delle leggi del capitale stesso; e comunque il capitale considera tali modificazioni “meno violente” sgradevoli e da evitare con ogni mezzo. Con leggi permissive e favorevoli al capitale (anche ricorrendo alla corruzione) all’interno dei paesi in cui il capitalismo domina; con la guerra – perfetto strumento di consumo di armi e di vite umane – quando qualche paese o qualche comunità si ribella. Insomma la produzione e il modo di agire capitalistico, inevitabilmente, comportano un impoverimento e un peggioramento della qualità delle risorse naturali – unica vera base dei valori e dei beni “reali” da cui dipende la vita umana».

Un lungo impegno fra lo studio e le opere

Come ha scritto Giovanna Ricoveri, direttrice di Capitalismo/Natura/Socialismo e di Ecologia politica di cui Giorgio Nebbia era assiduo collaboratore, «egli ha sempre collegato ambiente, salute, disuguaglianze economiche e sociali: una consapevolezza che ha tardato ad affermarsi».

Ed ecco alcune delle tappe del suo generoso impegno nei decenni.

Nel gennaio 1970 – due anni prima della conferenza Onu di Stoccolma sull’ambiente umano – esce un quadernetto firmato da Giorgio Nebbia dal titolo La crisi dei rapporti fra uomo e biosfera. In nome della «ecologia come scienza sovversiva», sottolineava la necessità di «contestare la mentalità che fa coincidere l’idea di “progresso” con quella di “società di consumi”». E proponeva fra l’altro di adottare «modestia e austerità, contro gli eccessi della meccanizzazione, l’indifferenza verso il verde e gli esseri viventi».

«Il verde, unica fonte, mossa dal Sole, della vita»: in un articolo su l’Extraterrestre di fine 2018, Giorgio Nebbia (morto il 3 luglio scorso) dava un andamento poetico a una constatazione scientifica. Nello stesso periodo, a proposito delle miniere insanguinate, scriveva: «Agli africani il dolore e la fatica del lavoro». Un tema, quello della violenza umana e ambientale nei processi di produzione scambio e consumo, che egli aveva sviluppato nel testo La violenza delle merci (Ecoistituto del Veneto,1999). Contro un capitalismo sanguinoso e insostenibile, imperialistico e bellicoso, iniquo e distruttivo, l’ecologia poteva essere uno strumento di conoscenza «utile a diffondere la solidarietà internazionale».

Irraggiungibile esempio di ecologista, scienziato, docente, educatore, politico a sinistra, divulgatore del sapere davvero per tutti (con migliaia di articoli, dossier, relazioni), il professor Nebbia è stato per molti decenni un crocevia di lotte ma anche di proposte, di studi ma anche di applicazioni. Si è messo disposizione non solo di lotte di carattere nazionale e mondiale, ma anche di una miriade di associazioni, comitati e cause «minori». Ne davano conto tre anni fa, per il suo novantesimo compleanno, diversi ambientalisti, attivisti, studiosi autori del libro collettivo Per Giorgio Nebbia. Ecologia e giustizia sociale (Fondazione Micheletti, 2016).

Nel 1972 partecipa, con altri antesignani dell’ambientalismo, alla Conferenza Onu su Ambiente e sviluppo a Stoccolma; nello stesso periodo, a Bari, il professore aiuta i comizi dei ragazzi che esigono dai candidati alle amministrative un’agenda di impegno ambientale. Del resto, come spiegherà nel 2015 in un’intervista a Teleambiente, «quando si parlava di problemi ambientali, il povero professore di merceologia sapeva bene che era materia sua, perché nell’ambiente finivano gli scarti» dei cicli produttivi. Intanto denuncia a mezzo stampa ogni genere di frodi alimentari, riuscendo a provocare interventi di controllo. Nel 1978 è fra i promotori del referendum contro la caccia – che non raggiunge il quorum.

E’ in nome della necessità di un «grande movimento di liberazione per sconfiggere le ingiustizie portate dalle merci, fra gli esseri umani e la natura», per ispirare le merci ai valori, che Giorgio Nebbia diventa parte attiva in molti conflitti ambientali, rispetto ai quali egli individua quattro categorie di soggetti: inquinatori, inquinato, Stato, scienziati. Partecipa alle mobilitazioni nell’alta valle Bormida, avvelenata dall’Acna di Cengio, la fabbrica chimica in provincia di Savona. Anche l’impegno dei cittadini e degli enti locali contro il polo chimico Farmoplant lo vede protagonista, da consigliere comunale a Massa Carrara fra il 1985 e il 1987. Nebbia sostiene fortemente la lunga causa ambientalista contro lo scarico in Adriatico dei fanghi al fosforo da parte del petrolchimico di Porto Marghera, proponendo alternative che contribuiscono a spostare parte dello stesso sindacato. Lo ricorda Michele Boato nel suo libro di storia contemporanea Arcipelago verde (2020).

Da parlamentare per due legislature, nel gruppo Sinistra indipendente, «sempre all’opposizione e quindi perdevamo quasi sempre», si impegna sui temi più svariati (e non sempre perdendo): la legge per la difesa del suolo varata in quegli anni, l’inquinamento da concimi, pesticidi, detersivi, piombo tetraetile, la sicurezza nelle fabbriche…

Aveva ben chiare le priorità, anche nel campo delle risorse, troppo spesso sprecate per merci e servizi disuguali. Nel suo saggio Sete, del 1992, enuncia un chiaro concetto: «Una tonnellata di acqua pro capite all’anno si può ritenere indispensabile per bere, lavarsi e cucinare. Oltre, inizia la discriminazione fra le classi». E fra i paesi. In Sahel il presidente Thomas Sankara lottava per garantire «dieci litri di acqua pulita per ogni persona ogni giorno»; in Italia la media nazionale è di oltre 200 litri – ma a seconda delle aree si va dalla penuria fino alle piscine private e ai praticelli british. Sul tema dell’acqua, Giorgio partecipa a diversi gruppi di lavoro, scegliendo come asse l’ecosistema bacino idrografico.

Ma Giorgio nel 2018 ha anche messo su carta il suo sogno, con il saggio fantascientifico (ricco di dati, percorsi dettagliati e grande speranza) «Lettera dal 2100. La società post-capitalistica comunitaria», nel libro di vari autori Alle frontiere del capitale (Jaca Book e Fondazione Micheletti, 2018). «Siamo alle soglie del XXII secolo; ci lasciamo alle spalle un secolo di grandi rivoluzionarie transizioni, un mondo a lungo violento, dominato dal potere economico e finanziario, sostenuto da eserciti sempre più potenti e armi sempre più devastanti. L’umanità è stata più volte, nel secolo passato, alle soglie di conflitti fra paesi e popoli che avrebbero potuto spazzare via la vita umana e vasti territori della biosfera. Vittima della paura e del sospetto, è stata esposta ad eventi meteorologici estremi che si sono manifestati con tempeste, alluvioni, siccità. […] Con fatica è stato realizzato un mondo in cui le unità comunitarie sono state costruite sulla base dell’affinità fra popoli, in cui città diffuse nel territorio sono integrate con attività agricole, in cui l’agricoltura è stata di nuovo riconosciuta come la fonte primaria di lavoro, di cibo e di materie prime, un mondo di popoli solidali e indipendenti, in cui la circolazione di beni e di persone non è più dominata dal denaro, ma dal diritto di ciascuna persona ad una vita dignitosa e decente».

Con le merci, con gli oggetti, dovremo sempre fare i conti perché anche i servizi dipendono dall’acquisto e uso di cose; una totale smaterializzazione è impossibile. Ma, spiega Giorgio Nebbia, «in futuro dovremo sempre più affrontare un confronto fra una merceologia che progetta merci e oggetti standardizzati, a lunga durata, facilmente riparabili, e una merceologia che progetta merci e oggetti continuamente variabili, destinati dopo breve vita a essere gettati via».

Occorrono nuove regole, per ispirare le merci ai valori. Riassumendo: «La salvezza va cercata nel cambiamento del rapporto fra gli esseri umani e le cose materiali, con la revisione critica dei nostri modi di produzione, la contestazione – una vera obiezione di coscienza – della società dei consumi, la pianificazione dei bisogni fondamentali, il potenziamento dei servizi e dei beni collettivi, l’identificazione di nuovi modi di vita per noi, abitanti del Nord del mondo, e di nuovi modi per risolvere i problemi della povertà degli abitanti del Sud del mondo, la lotta contro la struttura militare—industriale che è la più alta espressione della violenza e dello spreco».

Marinella Correggia *

* Intervento al convegno “Il contributo di Giorgio Nebbia alla ricerca e alla divulgazione dell’ecologia scientifica” del 16 settembre 2022, nella Sala di lettura della Fondazione “Luigi Micheletti”, in via Cairoli 9 a Brescia.

Fonte notizia: La Bottega del Barbieri

I commenti sono disabilitati.