Trump o Biden, Melania o Jill? Sogno di una notte di mezzo autunno…

La lunga campagna elettorale che sta dilaniando l’America da quattro anni, ovvero da quando Donald Trump sconfisse Hillary Clinton nel 2016, è finalmente giunta alle sue battute conclusive. Il 3 novembre, infatti, si chiuderanno le urne, in cui già giacciono molti dei voti espressi per corrispondenza o anticipatamente di persona al seggio.

Molti big della politica statunitense hanno già votato. Lo ha fatto il Presidente in carica, assieme alla moglie, in Florida. Anche lo sfidante democratico, Joe Biden, vi ha provveduto, così come Mitt Romney, repubblicano, che ha apertamente ammesso di essersi pronunciato contro il leader del suo partito.

Questa volta, formulare un pronostico è più difficile del solito a causa di una pluralità di fattori concomitanti. I sondaggi sono prevalentemente favorevoli a Biden, anche se ci sono alcune eccezioni. Ma le proporzioni del vantaggio attribuito al candidato democratico sono estremamente variabili a seconda delle società demoscopiche che si considerano.

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Alcune puntano verso lo scenario della sua vittoria a valanga, mentre secondo altre i distacchi negli Stati in bilico rientrerebbero nel margine del cosiddetto errore statistico, mantenendo Trump in partita.
Più in generale, viviamo una fase storica contrassegnata da una maggiore inaffidabilità delle rilevazioni tradizionali. Un esperto del calibro di Karl Rove ha fatto notare come un tempo le telefonate fatte dai sondaggisti si dirigessero verso le abitazioni, mentre oggi raggiungono apparecchi cellulari dietro i quali non si sa sempre bene chi vi sia. Sembra un dettaglio, ma non lo è.
Esiste poi una vasta massa di persone che nasconde comunque la propria opinione quando pensa che dichiararla sia pericoloso od inopportuno.

La forte polarizzazione dell’attuale campagna americana non ha certamente incoraggiato la gente ad aprirsi: di fronte a media ed istituti demoscopici compattamente schierati contro Trump, molti elettori intenzionati a votarlo potrebbero aver preferito mentire o tacere.

In assenza di altri indizi, è forse più utile guardare a come si sono comportati recentemente gli opposti schieramenti e soprattutto i due contendenti, perché alcune delle loro scelte sono significative.

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Dopo la guarigione dal Covid-19, ad esempio, Trump si è riproposto sulla scena con una certa baldanza. Non è mai apparso angosciato dalla propria posizione elettorale ed ha proiettato fiducia, distanziandosi molto dal Jimmy Carter di 40 anni fa e dallo sconsolato George Bush che nel 1992 attese passivamente il consumarsi del proprio destino.
Com’è stato possibile? Verosimilmente, Trump si è basato su dati che lo hanno incoraggiato, anche se negli ultimi giorni da qualche suo atteggiamento si è capito come anche lui sappia bene che la vittoria non è affatto scontata. Non ci sarà neanche, oltretutto, il tradizionale raduno previsto per la election night, perché il Presidente rimarrà alla Casa Bianca.

Quanto ai democratici, mentre Biden ha centellinato le sue apparizioni, è riapparso Barack Obama, che si è messo a fare comizi per il suo ex Vice. In Pennsylvania, dove successivamente si è recato anche il candidato democratico, il suo primo passaggio è andato quasi deserto.
Ma ciò che colpisce davvero è il fatto che tanto Obama quanto Biden si siano fatti vedere in uno Stato in cui i sondaggi assegnerebbero ai democratici un vantaggio sicuro. La circostanza induce a ritenere che anche loro reagiscano a numeri diversi rispetto a quelli noti a tutti.

I comitati nazionali dei due maggiori partiti americani lavorano in effetti su programmi che consentono l’analisi in tempo reale dei metadati e permettono di cogliere immediatamente i trend del momento.

Potrebbero esserci segnali rilevati in questo modo dietro le frequenti correzioni di rotta registratesi nella narrazione di Biden su alcuni punti qualificanti della sua proposta politica, come il bando al fracking, che ha reso l’America energeticamente autosufficiente.

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Di contro, Trump non ha avvertito la medesima esigenza ed è rimasto costantemente aderente al proprio messaggio. Il Presidente in carica è invece preoccupato dalla mole dell’early vote, per posta o in presenza, che quest’anno ha coinvolto già quasi 100 milioni di persone. Si tratta di elettori che in molti casi hanno manifestato la propria preferenza mentre Trump arrancava in tutti i sondaggi.
Lo svantaggio accumulato tra gli elettori precoci potrebbe essere molto ampio ed è per questo che il tycoon sta cercando di spingere i suoi sostenitori a recarsi alle urne e portarvi più gente possibile. Tra chi voterà il 3 novembre, in effetti, è più probabile che vi siano suoi elettori.

Il compito è improbo, malgrado in diversi Stati dell’Unione il turnout sia già più alto di quello registratosi nel 2016. Molte cose possono quindi ancora accadere. Anche che alla fine si rechi ai seggi un numero straordinario di persone, magari persino 160 o 170 milioni di elettori contro i 138 di quattro anni fa, rimettendo tutto in gioco. Non è impossibile, perché mai come questa volta la posta in palio è alta.
Si confrontano infatti non solo due visioni del ruolo degli Stati Uniti nel mondo, ma anche due concezioni di cosa l’America e l’Occidente debbano essere nell’immediato futuro.

Sul primo versante, Trump ha proposto un nuovo punto di equilibrio nella politica estera statunitense, invocando una minore presenza militare esterna e perseguendo un obiettivo di stabilizzazione anche attraverso il dialogo con qualsiasi tipo di leadership, cosa che non a caso gli è stata rimproverata dai suoi avversari.

Biden prospetta invece il cosiddetto re-engagement e qualora eletto probabilmente imprimerebbe correzioni di rotta su almeno due punti qualificanti della politica di Trump.

In primo luogo, la tutela della stabilità internazionale perderebbe quasi certamente l’importanza che le è stata attribuita dal tycoon. Trump ha perseguito la restaurazione dell’ordine dovunque ha potuto, ponendo al centro della sua visione il rispetto della sovranità nazionale altrui: Biden archivierebbe invece l’esperimento, per rilanciare l’impegno ad esportare la democrazia e promuovere i diritti umani, anche se non con mezzi militari.
In secondo luogo, non è affatto sicuro che Biden confermerebbe la politica di Trump nei confronti della Cina. Seppure lui paia personalmente favorevole alla prosecuzione della linea dura, alle sue spalle si intuisce un sistema di finanziatori e stakeholders che vogliono la fine delle guerre commerciali con Pechino e che non tarderebbero a far valere le loro ragioni: dopotutto, stanno investendo molto sulla vittoria dei democratici e lo ricorderebbero al nuovo Presidente. Biden avrebbe un solo modo di uscire da questo impasse: rilanciare il cosiddetto smart power. Ovvero, abbandonare dazi, tariffe e pressioni militari per tentare di destabilizzare la Cina dall’interno, magari usando Hong Kong come leva.

Si tratta di una prospettiva inquietante. Ammesso infatti che sia possibile aizzare la società civile cinese contro il Partito comunista e la burocrazia che amministrano il paese, dovrebbe esser spiegato a chi e cosa servirebbe una Cina nel caos. L’impatto di una crisi della Repubblica Popolare potrebbe essere infatti devastante per l’intera economia mondiale.
Sotto questo profilo, l’approccio finora adottato da Trump appare relativamente più vantaggioso dal punto di vista della tenuta degli equilibri globali, mirando ad una regolazione bilaterale del perimetro in cui alla Repubblica Popolare verrebbe permesso di esercitare un’influenza preponderante.

Sul piano interno è invece in gioco nulla di meno del concetto di libertà affermatosi in America. Il fatto che si voglia obbligare Hollywood a scegliere gli interpreti dei film in base a quote razziali, a prescindere dal loro valore e dalla propria funzionalità ai progetti dei registi, è una plateale offesa ai principi basilari del liberalismo. E non è Trump a condurre questa operazione.
Trump Biden

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Lo scontro è palese e concerne davvero i valori fondanti del sistema americano, contrapponendo chi sostiene ancora l’eguaglianza formale tra i cittadini a coloro che desiderano invece ridefinire l’identità stessa degli Stati Uniti, segmentandone la popolazione in minoranze dotate di specifici diritti rafforzati. Biden è personalmente affine a Trump nel sostenere la Costituzione del 1787, ma è alla testa di uno schieramento che vuole invece drasticamente cambiarla nella sostanza.

Su questi temi, a Trump non dovrebbe risultare impossibile portare al voto una base più ampia di quella che normalmente lo segue. Se ci riesce, quasi certamente rimarrà alla Casa Bianca. Malgrado tutto.

Giulio Virgi – https://it.sputniknews.com/opinioni/202011029722320-lamerica-verso-il-suo-giorno-piu-lungo/

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