Trump fa arrestare i pacifisti arroccati da un mese nell’ambasciata venezuelana a Washington

Violando la convenzione di Vienna (“inviolabilità delle ambasciate”) Trump fa arrestare i pacifisti arroccati da un mese nell’ambasciata venezuelana a Washington

Mercoledì, 15 maggio 2019, i pacifisti – tutti statunitensi contrari al tentato golpe USA nel Venezuela – avevano vinto contro Trump tre volte, con delle belle giocate. Oggi, giovedì, invece, ha vinto la prepotenza. E il disprezzo della legalità.

Ora che gli attivisti sono stati arrestati, i media mainstream accettano finalmente di parlare della loro clamorosa occupazione dell’Ambasciata venezuelana a Washington, durata oltre un mese. Scopo del loro barricarsi nell’edificio diplomatico: “impedirne l’uso da parte degli uomini di Juan Guaidò, l’autoproclamato presidente del Venezuela e burattino di Trump.” E gli attivisti aggiungono: “Se Trump ha voluto riconoscere Guaidò e vuole ora consegnargli l’ambasciata a Washington, è perché vuole realizzare un golpe bianco nel Venezuela – un golpe che potrebbe provocare una guerra civile. Non vogliamo che il Venezuela diventi un’altra Siria.”

Invece pochi mass media hanno parlato di questo straordinario avvenimento quando, per 46 giorni e cioè dal 10 aprile, gli occupanti tenevano in scacco Trump. Quando, cioè, riuscivano a tenere a bada, sia la polizia metropolitana e federale, sia gli squadristi pro-Guaidò che assediavano l’ambasciata per impedire ai sostenitori dei pacifisti, anche con metodi violenti, di consegnare il cibo, l’acqua e le medicine di cui gli occupanti avevano bisogno. Durante tutte quelle settimane, assoluto silenzio stampa. Bisogna chiedersi perché.

Tra i media che ne hanno parlato sono PeaceLink e le testate affiliate, il TGcom24 (5 righe) e l’edizione italiana di Euronews (che però ha dato la falsa notizia dello sgombero dell’ambasciata da parte della polizia quando invece gli occupanti stavano resistendo ancora).

Ma al di là delle notizie fornite o taciute (o falsificate) in queste settimane, cerchiamo di capire ora come sono andate realmente le cose a Washington.

Per avere un’idea precisa, ecco in dettaglio quello che è successo ieri e poi oggi, il 15 e il 16 maggio 2019, all’ambasciata venezuelana occupata: sono tutti fatti documentati. Poi traete le conclusioni voi.

Ieri, 15 maggio, è stata una giornata positiva: gli occupanti hanno avuto tre successi inaspettati.

(1.) La polizia municipale di Washington aveva effettivamente previsto per la mattina del 15/5 di sgomberare i pacifisti dall’ambasciata. La notte precedente, infatti, la polizia aveva tolto le catene che tenevano chiuse le porte dell’edificio – vedi foto in alto – e aveva consegnato un avviso intimando agli occupanti di uscire immediatamente, pena l’arresto per violazione di domicilio. Poi, mercoledì all’alba, gli agenti si sono presentati alla porta dell’ambasciata.

L’avvocata Verheyden-Hilliard davanti all’ambasciata.
Foto di John Zangas, DC Media Group

Ma ad aspettarli c’era l’avvocata del Soccorso Rosso statunitense, Mara Verheyden-Hilliard, che ha posto loro questa domanda: “Voi avete un mandato d’arresto regolarmente rilasciato da un giudice?” “No”, è stata la risposta. E, difatti, la polizia municipale di Washington non può ottenere, da nessun giudice, un mandato d’arresto per persone che si trovano all’interno di una ambasciata, in quanto, per trattato internazionale, l’edificio costituisce una zona extraterritoriale. “In tal caso”, ha risposto l’avvocata al capo della polizia, fatto arrivare d’urgenza dai suoi uomini, “se voi procedete all’arresto degli occupanti di questo edificio eseguendo ordini palesemente illegali, voi commetterete un reato e sarete perseguibili ai sensi della legge 42 USC § 1983, Bivens.”

Può sembrare incredibile, ma il Presidente Trump, il Segretario di Stato Pompeo e il Consigliere per la Sicurezza Bolton avevano ordinato il raid della polizia senza preoccuparsi della sua legalità o meno e senza aver fornito alla polizia un pezzo di carta da poter esibire. Impreparato, il capo della polizia ha preferito fare marcia indietro, ordinando ai suoi uomini di non effettuare il raid e di rimanere immobili sul marciapiede mentre lui si consultava con i suoi superiori.

(2.) Secondo successo della giornata d’ieri. Il Sindacato Nazionale Avvocati statunitense aveva inviato, tre giorni fa, una diffida formale tramite fax a Pompeo, al Direttore del Servizio di protezione delle ambasciate e al capo della polizia di Washington. Il documento spiega il grande pericolo politico in cui tutte le ambasciate del mondo potrebbero incorrere in seguito al precedente creato da Trump nel tollerare le aggressioni degli squadristi pro-Guaidò contro gli occupanti dell’ambasciata venezuelana. Qualsiasi ambasciata, infatti, potrebbe essere assediata da gruppi di oppositori politici, senza che la polizia locale intervenga per proteggerla. Anzi, la stessa polizia potrebbe entrare dentro la sede e cacciare tutti i diplomatici, sostituendoli con persone più gradite: basterebbe che il paese ospitante dichiari di non riconoscere le elezioni di un determinato Capo dello Stato straniero per farlo decadere insieme al suo ambasciatore. Sarebbe il Far West diplomatico.

La diffida è stata indirizzata anche all’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. Questo perché molteplici paesi membri dell’ONU si sono allarmati davanti ai rischi che potrebbero incorrere le loro ambasciate se fossero messe in discussione da Trump le protezioni garantite dalla convenzione di Vienna del 1961.

Ora la buona notizia: per spingere l’Alto Commissariato a indagare sui comportamenti dell’amministrazione Trump, il governo Venezuelano e le attiviste di CodePink sono riusciti a tenere una conferenza stampa sugli eventi a Washington alle ore 16 (le 22, ora italiana) nella sede ONU a New York, che ha rotto finalmente il silenzio mediatico mainstream intorno alla vicenda dell’ambasciata occupata (almeno negli Stati Uniti). Inoltre, ha spronato diversi paesi a sollecitare un intervento in merito da parte dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani.

Il reverendo Jesse Jackson davanti all’ambasciata venezuelana;
alle finestre del primo piano, i quattro pacifisti occupanti.

(3.) Infine, ecco il terzo successo di ieri: nel pomeriggio è apparso all’improvviso, davanti all’ambasciata, il reverendo Jesse Jackson, storico leader dei diritti civili negli Stati Uniti e erede di Martin Luther King. Il suo arrivo è stato provvidenziale.

Infatti, dentro l’ambasciata le scorte di cibo e d’acqua stavano diminuendo e mancava la corrente da una settimana. Le pacifiste di CodePink avevano cercato di far pervenire agli occupanti alcuni cesti di provviste con l’antico sistema della corda lanciata da una finestra. Solo che, quasi sempre, gli squadristi pro-Guaidò, in agguato giorno e notte, avevano strappato i cesti dalle loro mani prima che potessero legarli alla corda. Mentre la polizia guardava sempre dall’altra parte, naturalmente. Anzi, in almeno un’occasione, un poliziotto ha tagliato la corda.

La penuria di cibo e d’acqua spiega perché, dei venti occupanti iniziali, sedici hanno deciso di lasciare l’Ambasciata qualche giorno fa, in modo che le poche scorte rimaste bastassero per i quattro attivisti rimasti dentro. Ma poi anche loro hanno fatto sapere che le loro scorte stavano finendo..

Ed ecco che irrompe sulla scena ieri pomeriggio, come la cavalleria nei vecchi film western, Jesse Jackson con i suoi uomini muniti di sacchi di provviste, taniche d’acqua e di un mini generatore d’energia elettrica!

Naturalmente, gli squadristi pro-Guaidò hanno cercato di malmenarli e di strappare via le provviste, come hanno fatto con le CodePink. Ma questa volta la polizia è intervenuta – forse in seguito agli eventi della mattinata o forse per paura di uno scandalo nazionale se venisse ferito una celebrità come Jesse Jackson (77 anni). Gli uomini di Jackson, quindi, hanno potuto legare la corda, lanciata dal primo piano, ai loro sacchi, alle loro taniche e al loro generatore e poi gli occupanti li hanno tirati su mentre le CodePink per strada esultavano. Jackson ha promesso di tornare con i suoi uomini ogni giorno, per tutto il tempo che occorreva.

E poi è arrivato oggi, il 16 maggio 2019: il giorno del fattaccio.

La polizia stazionata all’entrata secondaria dietro l’ambasciata durante gli arresti.
Foto @RealAlexRubi, AntiMedia

Alle ore 9.15, una squadra d’assalto SWAT (armi speciali) ha sfondato la porta sul retro dell’ambasciata; sono poi entrati in azione gli agenti federali armati. C’è sicuramente un motivo, legato alla necessità di trovare una giustificazione legale per l’incursione, che spiega perché la polizia metropolitana, largamente utilizzata nelle settimane precedenti davanti all’ambasciata, sia stata rimpiazzata oggi da agenti speciali provenienti dal poco noto Servizio Sicurezza del Dipartimento dello Stato (DSS).

Comunque sia, il capo di accusa è stato regolarmente letto ai quattro attivisti in manette: “interferenza nelle funzioni di protezione delle ambasciate” svolte dal DSS. Gli agenti federali hanno anche mostrato all’avvocata degli occupanti, Verheyden-Hilliard, un mandato di arresto firmato dal giudice federale G. Michael Harvey, in base ad una richiesta formulata dal “legittimo ambasciatore venezuelano” Carlos Vecchio.

Ovviamente, la legalità di quel mandato rimane tutto da vedere.  Per esempio, in base a quale principio di giurisprudenza può un semplice giudice federale statunitense determinare che Vecchio sia il “vero ambasciatore” e non l’uomo nominato a suo tempo da Maduro?  Nessun principio.  Per cui è ovvio che Trump e Pompeo, nell’ordinare gli arresti all’interno dell’ambasciata, hanno semplicemente imbastito una messa in scena del “rispetto della legalità” e niente di più.

Medea Benjamin, co-fondatrice delle CodePink, ha immediatamente rilasciato una dichiarazione alla stampa in cui ha sottolineato che non è affatto finita la lotta contro il golpe di Trump in Venezuela. Inoltre, ha diffidato Trump e Pompeo dal cedere l’ambasciata agli uomini di Guaidò nell’immediato. La soluzione ideale, ha spiegato Benjamin, sarebbe quella usuale praticata in campo diplomatico quando una proprietà viene contesa tra due governi: si nomina un governo terzo (nel caso presente, Benjamin ha fatto il nome della Svizzera) per tutelare il bene in questione (qui, l’edificio al No. 1099 della 30esima Strada NW a Washington), non consentendo che venga utilizzato da nessuno dei due contendenti, fin quando un arbitrato o una sentenza in giudizio non ne determini il proprietario legittimo.

Intanto, per mantenere alta la pressione su Trump, Pompeo e Bolton, è previsto per questo sabato pomeriggio a Washington davanti all’ambasciata venezuelana, a mezzogiorno (ore 18 in Italia), una grande manifestazione di sostegno per i quattro arrestati, per la legalità internazionale e contro ogni golpe. Oltre alle CodePink, si riuniranno davanti all’ambasciata del Venezuela, gli attivisti di tutte le altre formazioni che hanno sostenuto l’occupazione sin dall’inizio, in particolare la Answer Coalition, Popular Resistance e Black Alliance for Peace.

Patrick Boylan – Lista No Nato

P.S.

Gli ultimi sviluppi del 18 maggio all’ambasciata venezuelana di Washington:

Raid della polizia che ha arrestato e portato via i 4 pacifisti ancora asserragliati. *)
Inoltre, posso anche anticiparvi queste ultimissime notizie arrivate stanotte da Washington:

(1.) hanno appena rilasciato i 4 arrestati. Devono apparire per un’udienza tra un mese ma solo per un “misdemeanor” (cioè, una “infrazione”, non un “reato”). Già l’offensiva giudiziaria si sta sgonfiando.

(2.) CodePink annuncia, oltre alla manifestazione sabato, l’inizio di un sit-in permanente davanti all’ambasciata venezuelana a partire da lunedì prossimo.

(3.) Il “Soccorso Rosso” statunitense annuncia una causa contro lo State Department.

(4.) L’invasione poliziesca della sede diplomatica venezuelana sarà oggetto di un discussione all’ONU.

La partita è davvero tutta da giocare. (P.B.)

*) Fonte: https://www.peacelink.it/conflitti/a/46510.html

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