Europa o Torre di Babele? – Omogeneizzazione o multiculturalità?

Ci si chiede di che cosa si occupi e cosa faccia la Commissione Cultura del Parlamento Europeo.

L’Unione Europea è ad un bivio. 65 anni dopo la creazione della CECA, l’ambizioso progetto di promuovere una pace durevole attraverso, prima, una comunità di interessi tra popoli diversi, in seguito, uno spazio multiculturale di cittadinanza comune, è minacciato da spinte centrifughe di stampo nazionalista e rischia il collasso. Forse più di ogni altra commissione del Parlamento Europeo, la Commissione Cultura occupa una posizione strategica per promuovere una sana e vitale coesione tra i cittadini europei al fine di saldare il divario creatosi tra i cittadini e le istituzioni europee e ridare slancio a una costruzione più necessaria che mai in un mondo che deve affrontare le più grandi sfide alle quali nessuna generazione è mai stata confrontata in tutta la Storia. Per poter affrontare questa sfida risulta imprescindibile instaurare una vera a propria politica linguistica europea poichè la sua assenza e, peggio ancora, la marcia forzata verso il tutto inglese in seno alle istituzioni europee, alimentano il distacco dei cittadini, l’incomprensione e la sfiducia.

La lingua costituisce lo zoccolo di ogni cultura perché struttura la “forma mentis” ed è il punto di passaggio per comunicare in tutti settori e in ogni circostanza della vita. La questione linguistica europea dovrebbe dunque essere uno dei pilastri fondamentali di riflessione e d’azione di questa Commissione del Parlamento Europeo. La riflessione si dovrebbe articolare attorno alla necessità di diffondere la conoscenza delle diverse culture esistenti in seno all’Unione, promuovere l’apprendimento di più lingue e garantire un diffuso plurilinguismo nella prassi quotidiana delle instituzioni europee cosi come nei rapporti tra le stesse e i cittadini, le loro imprese e le loro associazioni e tra i cittadini stessi.

Nell’ambito del processo di integrazione, nessuna lingua può riempire il ruolo di lingua franca senza creare irreparabili fratture e discriminazioni come sta accadendo da anni con l’inglese. Le imprese della stragrande maggioranza degli Stati Membri sono svantaggiate in tutti bandi di consorso, indetti dai servizi amministrativi dell’UE, rispetto ai loro concorrenti di madre lingua inglese. Gli individui che cercano informazioni, in materia comunitaria, anche sull’internet non le trovano quasi mai nella propria lingua neanche allorché si tratta di decisioni che regolano la loro vita quotidiana. Perdippiù, le pratiche linguistiche imposte all’interno della Commissione Europea stanno recando danni irreparabili al processo legislativo europeo e al suo trasferimento nei sistemi legislativi nazionali senza che i parlamentari, che dovrebbero controllarne l’azione, se ne rendano conto.

Già dieci anni fa, Athena, in una nota che allego, metteva in guardia quanto ai pericoli del trilinguismo imposto addirittura in assenza di un qualsiasi criterio enunciato e obiettivo, al fine di giustificarlo. Lo slittamento verso l’uso del solo inglese, paventato nella nota allegata, si fa ogni giorno più spinto, stravolgendo sempre di più il progetto di integrazione dell’Europa. Ancora oggi, nonostante la Brexit, la maggior parte dei documenti delle istituzioni europee sono redatti in inglese e i responsabili, ai più alti livelli, continuano ad esprimersi, più o meno bene, in inglese, alla faccia della regolamentazione vigente e dell’abusivo e inadeguato trilinguismo. È assolutamente incredibile che quasi nessuno, in particolare tra coloro che sono gli eredi della civiltà greco-latina, si sia reso conto del fatto che se l’Europa è scaduta agli attuali livelli di deriva, di impopolarità e, spesso, di inefficienza, ciò è dovuto in gran parte al fatto che, a partire da una certa epoca, l’Europa è stata “pensata” e “concepita” quasi esclusivamente in inglese e che, se si continua su questa strada, l’Europa Unita non si farà né ora né mai.

Nella mia qualità di funzionaria europea ho avuto il compito di redigere i testi originali di svariate proposte di Regolamenti, Direttive, Accordi, Dispositivi di progetti di cooperazione e quant’altro della Commissione Europea al Consiglio di Ministri, tutti documenti che sarebbero poi stati tradotti nelle altre lingue per essere messi a disposizione dei Comitati e Gruppi di Lavoro “ad hoc”. In quanto redattrice di tali documenti, ho sempre rifiutato di utilizzare l’inglese, non certo per partito preso ma unicamente a causa dell’impossibilità di redigere, in inglese, un qualsiasi documento normativo che potesse essere, in seguito, tradotto nelle lingue latine e trasferito, agevolmente e correttamente, in un qualsiasi sistema regolamentare e legislativo derivante dal diritto romano. L’uso dell’inglese, in particolare per quanto riguarda i testi normativi, non solo deforma il pensiero dei non-anglosassoni ma spesso non dispone neanche delle parole utili e necessarie che permettano di costruire un testo che corrisponda alla forma di pensiero derivante dal diritto romano e sia trasferibile in sistemi giuridici diversi da quello anglosassone. Attraverso l’uso esclusivo e sistematico dell’inglese, per la redazione dei testi originali della regolamentazione comunitaria, i popoli europei diventano succubi di una “forma mentis” e di valori che non appartengono alla loro civiltà. Per quanto riguarda il trasferimento verso il sistema giuridico italiano, questo problema non sussiste con l’uso del francese, delle lingue della civiltà greco-latina e neanche con il tedesco che meriterebbe di essere più largamente diffuso per conferire maggiore spessore culturale all’Europa.

Anna Maria Campogrande

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