L’inflazione della Comunità Europea e la questione linguistica

Dopo la caduta del muro di Berlino agenti rappresentanti di interessi estranei e incompatibili con il progetto d’integrazione dell’Europa hanno, poco a poco, infiltrato le istituzioni europee stravolgendole, cambiando metodi di lavoro, priorità, organizzazione dei Servizi, accanendosi particolarmente sui Servizi Linguistici e sul funzionamento di tutti i Servizi. Oggi siamo ormai ridotti ai minimi termini avendo accantonato il metodo comunitario, la famosa “methode communautaire” e funzionando all’ “intergovernativo”, per di più, invasi come siamo da orde di nuovi Paesi membri con i quali condividiamo ben poco e non certo la concezione della Democrazia e della Pubblica Amministrazione. Paesi che, certamente, avrebbero potuto entrare a far parte della UE ma tra venti-trent’anni dopo un adeguato periodo di “associazione”.

Claude Cheysson, Commissario europeo con il quale ho lavorato per lunghi anni, uomo politico francese di alto livello, lasciando la Commissione a fine mandato, trasmise al Collegio dei Commissari e ai Servizi competenti, un documento nel quale affermava che, si, l’Europa aveva vocazione ad allargarsi ma non al prezzo di auto-distruggersi e prefigurava una UE costruita con una architettura a cerchi concentrici con al centro i Paesi fondatori che condividevano tutto e via via gli altri Paesi a seconda della loro preparazione, competenza ed effettiva adesione al progetto di integrazione in corso. La cosa non ebbe seguito, malgrado l’accordo iniziale degli, allora, 12 Stati Membri, perché il Regno-Unito, che è sempre stato con un piede dentro e uno fuori, riuscí a manovrare in modo tale che il progetto fu accantonato e il tutto fu messo a tacere.

Ciò detto la questione linguistica europea, non smetterò mai di ricordarlo nonostante il fatto che nessuno dia segno di comprendere, è tutt’altra cosa che la lingua di comunicazione mondiale. Le lingue europee, il plurilinguismo delle istituzioni europee, è necessario e indispensabile, non solo perché è regolamentato dalle disposizioni legali delle istituzioni europee ma, sopratutto, da un punto di vista pratico, perché le lingue dell’Europa non servono solo per la “comunicazione” ma sono imprescindibili, anzitutto, per “riflettere”, “concepire”, “legiferare” organizzare l’Europa nell’interesse e a immagine di tutti gli Stati Membri e nel rispetto della DEMOCRAZIA. Con l’uso di una sola lingua, l’inglese, il modello di integrazione dell’Europa è offuscato e disatteso, il progetto di integrazione europeo viene deviato e trasformato in un progetto di colonizzazione anglo-americana. Nessuna lingua è neutra, ogni lingua ha la sua “forma mentis”, la sua visione del mondo, i suoi specifici punti di riferimento, le sue priorità, i suoi valori fondamentali che sono tutti veicolati dal pensiero che la lingua esprime.

Al dilà di tutto ciò, in base alla regolamentazione vigente, una cosa resta chiara: possono essere lingue ufficiali e lingue di lavoro delle istituzioni europee solo le lingue ufficiali degli Stati Membri dell’UE.

La scelta della Commissione Europea, sotto la presidenza di Romano Prodi, di adottare tre lingue di procedura (francese, inglese e tedesco) che poi sono, in pratica, diventate lingue di lavoro nella più totale opacità e in assenza dell’enunciazione di un qualsiasi criterio di discriminazione è del tutto arbitraria e testimonia di una mancanza di rigore, di visione e di comprensione del processo di integrazione dell’Europa da parte dei responsabili di questa deriva. Peraltro, non si capisce perché gli Italiani abbiano ingoiato, senza fare una rivoluzione, la pillola amarissima dell’esclusione dell’italiano dal ristretto gruppo di lingue di procedura poiché avrebbero, come minimo, potuto e dovuto far valere il principio di ritenere le lingue dei Grandi Stati Membri dell’Unione che sono solo quattro: Italia, Francia, Germania e Regno-Unito, e non già solo tre: Francia, Germania e Regno-Unito, contribuendo in tal modo a fornire un criterio di discriminazione, se non altro, enunciato e trasparente.

Anna Maria Campogrande

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