Il mesto tramonto di Obama Bin Barack

Gli otto anni della presidenza Obama sono ormai agli sgoccioli. Ricordo gli squilli di tromba che, nel novembre 2008, ne salutarono l’elezione, i toni celebrativi dell’intellettualità sedicente progressista del mondo intero, la compunta commozione dei buonisti del globo per l’intronizzazione di un “discendente degli schiavi” alla Casa Bianca, i toni messianici, il trionfo del politicamente corretto, gli osanna della grande stampa della sinistra foraggiata dalla destra economica, l’attesa per un “nuovo Kennedy” che avrebbe dovuto aprire una “nuova frontiera” per il bene dell’umanità. Gli fu addirittura attribuito un Premio Nobel per la Pace a titolo preventivo (e assolutamente immeritato), nella certezza che uno come lui avrebbe portato pace, luce e prosperità ai popoli dell’universo mondo. E questo, soltanto per il colore della sua pelle, per quella sorta di razzismo capovolto che i poteri forti utilizzano per cloroformizzare l’opinione pubblica europea e occidentale.

Adesso, giunti quasi alla scadenza di un doppio quadriennio esaltante come un’aspirina, sarebbe fin troppo facile ironizzare. L’immagine del Presidente “abbronzato” appare oggi stanca, sbiadita, priva di smalto e di credibilità.

Non che la sua presidenza non abbia fatto registrare dei passaggi positivi, soprattutto nel campo della politica interna. Penso in primo luogo alla riforma del sistema sanitario statunitense: riforma parziale, insufficiente, sempre strettamente connessa al mondo finanziario-assicurativo, ma comunque apprezzabile, sensibilmente innovativa di un “sistema” schifoso (non riesco a trovare altro termine) che vorrebbe riservare l’accesso alle cure sanitarie quasi esclusivamente a coloro che hanno la possibilità di pagarsi costose assicurazioni. Un sistema – sia detto per inciso – cui guardano con malcelata invidia certi sostenitori europei del “libero mercato”.

A fronte dei pochi successi in politica interna, ciò che contrassegna la presidenza Obama sono i tanti insuccessi di una politica estera che non esito a definire disastrosa: un mix di arroganza inarrivabile e di aggressività senza scrupoli verso qualunque Paese abbia osato opporsi alla politica “imperiale” degli Stati Uniti.

L’arroganza è stata esercitata soprattutto verso le nazioni che sono (almeno teoricamente) amiche ed alleate degli USA. Verso l’Unione Europea, obbligata a decretare sanzioni economiche masochistiche verso una Russia che ci è amica; verso gli alleati della NATO, costretti a collaborare alle aggressioni più odiose, come quella contro la Libia di Gheddafi. Gli uni e gli altri – gli europei e gli atlantici – privati di ogni potere decisionale, di ogni protagonismo, di ogni possibilità di scelte di una qualche autonomia. Oggetti e non soggetti della politica diplomatica internazionale, redarguiti alla stregua di scolaretti (come sulla “inevitabilità” della politica anti-russa) e invitati senza mezzi termini ad allargare i cordoni della borsa ed a contribuire con moneta sonante alle spese dei padroni (“la libertà non è gratis”).

Eppure, se l’arroganza è stata riservata ai sudditi obbedienti, ai disobbedienti (o semplicemente ai dissenzienti) è andata molto peggio: o una “rivoluzione colorata” modello Ukraina (finanziata con 5 miliardi di dollari dagli USA, stando alle rivelazioni dell’autorevole “Jane’s Review”); o – ove ciò non bastasse – la nascita di veri e propri eserciti dell’opposizione “democratica” (armati con artiglieria pesante e mezzi corazzati) che hanno messo a ferro e fuoco intere nazioni, dalla Libia alla Siria. Ufficialmente, gli americani hanno fornito solo petardi e castagnole, ma in ambienti “bene informati” si sospetta che le armate “moderate” siano state create e armate dalla CIA, con fondi propri o con denari provenienti da qualche monarchia petrolifera, anch’essa naturalmente “moderata”.

Ovviamente, la politica mediorientale di Obama ha avuto qualche effetto collaterale di poco conto: chessò… lo sterminio delle popolazioni cristiane di Siria e Iraq, la fuga di milioni di profughi verso l’Europa, la nascita di uno strano simil-Stato califfale che – dicono sempre i cosiddetti bene informati – attingerebbe alle medesime segrete fonti di finanziamento che sostengono gli eserciti mercenari delle opposizioni “moderate”. Comunque, grazie a San Vladimir (Putin) l’ISIS è adesso con l’acqua alla gola, e anche gli americani sono costretti a fare qualcosina di più; non molto, solo quel tanto sufficiente a salvare la faccia.

L’obiettivo-principe della politica estera obamiana è un altro: la creazione di una “zona di libero scambio” fra USA e UE, che possa rimuovere le ultime tenui salvaguardie che i paesi europei hanno per la loro produzione e per i loro commerci. La globalizzazione ha già travolto quasi tutto, ma resta ancora qualche modesta, residua barriera commerciale che si frappone al completo dilagare delle merci statunitensi in Europa, al massacro totale di tutti i nostri comparti economici: industria, commercio, agricoltura, per tacere degli effetti devastanti dell’invasione di prodotti di scarsissima qualità e affidabilità. Analogamente a quanto è successo col Messico, un tempo paese economicamente modesto ma integro, e oggi – a vent’anni dall’entrata in vigore della zona di libero scambio con gli USA – impoverito oltre ogni ragionevole limite, ridotto a mero mercato di consumo per la produzione statunitense che ha travolto e sommerso quella autoctona. Nazione un tempo autonoma dal punto di vista alimentare, oggi il Messico è totalmente dipendente dagli Stati Uniti, non produce praticamente più nulla, non esporta più nulla e le sue importazioni sono cresciute del 1.200 per cento. Ad aumentare – insieme al disavanzo commerciale – sono state soltanto la criminalità, la violenza e la corruzione.
Ebbene, sommerso da una serie impressionante di fallimenti diplomatici, perdente anche sul piano dell’immagine nel raffronto con l’odiato Putin, prima di passare definitivamente la mano Obama vuole portare a casa almeno un risultato: un trattato di libero scambio che faccia dell’Europa un semplice mercato per la produzione statunitense e la trasformi in una sorta di Messico d’oltreatlantico.

Ma – destino cinico e baro! – da un paio d’anni a questa parte, i popoli europei hanno preso a votare in modo politicamente scorretto, premiando i partiti populisti e mortificando i partiti collaborazionisti degli americani; che poi – i collaborazionisti – sono anche i sostenitori dell’immigrazionismo incontrollato.
Ecco, allora, che papa Obama ha compiuto un’ultima visita in Europa, privilegiando l’Inghilterra, un tempo alleata fedelissima e oggi ad un passo da una dissociazione clamorosa dall’Unione Europea (e quindi dalle trattative segrete che sono in corso sul trattato “transatlantico”). Ma il poveretto ha incassato l’ultimo sberleffo: prima della sua visita a Londra, i sondaggi davano ancora in lieve vantaggio i no all’uscita dall’Unione Europea. Dopo la sua visita, dopo l’appello a non uscire dall’Unione e – guarda caso – ad accogliere sempre più immigrati, i sostenitori del Brexit sono passati in vantaggio. I collaborazionisti, ormai, sperano solo di riuscire a prevalere fra gli “indecisi”, fra coloro – cioè – che non hanno risposto né si né no ai sondaggi e che, probabilmente, non andranno nemmeno a votare.

Sembra, infine, che l’elezione di un islamico a sindaco di Londra – osannato dallo stesso coro di razzisiti capovolti che aveva sbavato per l’elezione di Obama nel 2008 – lungi dal rafforzare il fronte europeista ed immigrazionista, sia stato recepito dall’Inghilterra profonda come un preoccupante segnale d’allarme. Un altro piccolo passo avanti sulla strada del Brexit. E, al tempo stesso, un altro piccolo passo avanti sulla strada della liberazione dei popoli europei. Decisamente, quello di Obama è un assai mesto tramonto.

Michele Rallo – ralmiche@gmail.com

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Commento:
“Ed anche la Regina vede nero… – “Sta arrivando una tempesta, che la Gran Bretagna non ne ha mai viste di eguali.  La seconda guerra mondiale sembrerà una buca sulla strada in confronto a questa”, sussurrò la  regina. Un sensazionale, inquietante  fuori-onda  ha colto di sorpresa la troupe della BBC intenta a posizionare telecamere e microfoni per riprendere il rituale discorso di Elisabetta al parlamento, il 18 maggio. La vecchissima sovrana è apparsa subito irritata – così ha raccontato un membro  della BBC presente – di dover fare un discorso  neutro.  “Ha detto  che concrete informazioni  dai massimi livelli militari dicono che se noi non  ‘Brexit’, si  entra in uno scenario inevitabile di terza guerra mondiale” (Paolo D’Arpini)

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