Archivio di settembre 2010

Vegetarismo ed animalismo ed una rete di pensieri amorevoli per la vita…

Carissimi, contro lo sfruttamento, la tortura ed il sistematico massacro degli animali, nostri fratelli di viaggio, vittime innocenti dell’ egoismo e della violenza umana, la nostra impotenza ad aiutarli è dolorosamente schiacciante.
 
            Però abbiamo un’arma potentissima che possiamo usare in questa ìmpari battaglia: L’ENERGIA DELLE ONDE PENSIERO (che io stesso ho potuto sperimentare in molte circostanze con risultati sorprendenti) i cui effetti sono stati dimostrati anche a livello scientifico.
 
            Per questo abbiamo deciso di organizzare una CATENA DI ENERGIA SPIRITUALE tra tutte le persone che credono nell’efficacia della preghiera e che vogliono aiutare gli animali. Questo progetto, che ha avuto inizio il 4 ottobre del 2001, giorno di S. Francesco, si ripete il 4 di ogni mese a tempo indefinito.
 
            L’impegno consiste nel collegarsi mentalmente con tutti coloro che nello stesso momento sono impegnati nel medesimo obiettivo inviando il proprio sostegno spirituale a tutti gli animali del mondo che in quel momento stanno soffrendo a causa della privazione della libertà, della fame, della sete, delle ferite; che stanno agonizzando nei mattatoi, negli allevamenti intensivi, negli istituti di sperimentazione, nelle reti dei pescatori, nei boschi, nelle arene, nei circhi, negli zoo o a causa di qualunque altra violenza fisica, mentale od emotiva.
 
            Pensiamo di suddividerci in gruppi con l’impegno di un’ora in modo da coprire l’intera giornata bilanciando le forze disponibili. Per questo è necessario che coloro che intendono far parte di questa RETE DI ONDE PENSIERO A BENEFICIO DEGLI ANIMALI SOFFERENTI mi comunichino la propria disponibilità, indicando l’ora che intendono coprire, al mio indirizzo di posta elettronica: francolibero.manco@fastwebnet.it oppure telefonandomi direttamente allo 06.7022863 – 333 9633050.
 
Se potete cercate di coinvolgere altre persone in questo progetto. L’unione fa la forza, specialmente nel campo mentale-energetico-spirituale.
 
            Confido nella partecipazione degli aderenti al Movimento dell’Amore Universale, degli animalisti e di tutti coloro che hanno a cuore il bene di ogni essere vivente e sperano in un mondo migliore.

Franco Libero Manco

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Serge Latouche: “Vivere frugalmente, in pace con se stessi e con il mondo…”

Ante scriptum: “Vallo un po’ a dire alle masse alienate, $TORDITE e inebetite dalla pubblicità…” (Gianni Donaudi)

 

Bisogna risalire alla seconda metà del ‘700 per trovare le origini del pensiero economico che fa coincidere il «benessere» statistico con il «ben avere», sebbene nello stesso periodo l’illuminista napoletano Antonio Genovesi avesse sottolineato la necessità di una economia fondata sulla ricerca del bene comune. Temi che si ripropongono oggi con grande urgenza e che richiedono l’elaborazione di nuovi codici e regole. L’anticipazione di un intervento a Pordenonelegge

 

Per concepire e costruire una società di abbondanza frugale e una nuova forma di felicità, è necessario decostruire l’ideologia della felicità quantificata della modernità; in altre parole, per decolonizzare l’immaginario del PIL pro capite, dobbiamo capire come si è radicato.

 

Quando, alla vigilia della Rivoluzione francese, Saint-Just dichiara che la felicità è un’idea nuova in Europa, è chiaro che non si tratta della beatitudine celeste e della felicità pubblica, ma di un benessere materiale e individuale, anticamera del PIL pro capite degli economisti. Effettivamente, in questo senso, si tratta proprio di un’idea nuova che emerge un po’ ovunque in Europa, ma principalmente in Inghilterra e in Francia. La Dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776 degli Stati Uniti d’America, paese in cui si realizza l’ideale dell’Illuminismo su un terreno ritenuto vergine, proclama come obiettivo: «La vita, la libertà e la ricerca della felicità». Nel passaggio dalla felicità al PIL pro capite si verifica una tripla riduzione supplementare: la felicità terrestre è assimilata al benessere materiale, con la materia concepita nel senso fisico del termine; il benessere materiale è ricondotto al «ben avere» statistico, vale a dire alla quantità di beni e servizi commerciali e affini, prodotti e consumati; la stima della somma dei beni e dei servizi è calcolata al lordo, ossia senza tenere conto della perdita del patrimonio naturale e artificiale necessaria alla sua produzione.

 

Il primo punto è formulato nel dibattito fra Robert Malthus e Jean Baptiste Say. Malthus comincia col comunicarci la propria perplessità: «Se la pena che ci si dà per cantare una canzone è un lavoro produttivo, perché gli sforzi che si fanno per rendere divertente e istruttiva una conversazione e che sicuramente offrono un risultato ben più interessante, dovrebbero essere esclusi dal novero delle produzioni attuali? Perché non vi si dovrebbero comprendere gli sforzi che dobbiamo fare per moderare le nostre passioni e per diventare obbedienti a tutte le leggi divine e umane che sono, senza possibilità di smentita, i beni più preziosi? Perché, in sostanza, dovremmo escludere un’azione qualsiasi il cui fine sia quello di ottenere il piacere o di evitare il dolore, sia del momento che nel futuro?».

 

 

Materiali e immateriali

 

Certo, ma è Malthus stesso poi a osservare che questa soluzione porterebbe direttamente all’autodistruzione dell’economia come campo specifico. «È vero che in tal modo potrebbero esservi comprese tutte le attività della specie umana in tutti i momenti della vita», nota giustamente. Infine, aderisce al punto di vista riduttivo di Say: «Se poi, insieme a Say», scrive Malthus «desideriamo fare dell’economia politica una scienza positiva, fondata sull’esperienza e capace di dare risultati precisi, dobbiamo essere particolarmente precisi nella definizione del termine principale di cui essa di serve (cioè, la ricchezza) e comprendervi solamente quegli oggetti il cui aumento o diminuzione siano tali da potere essere valutati; e la linea più ovvia e utile da tracciare è quella che separa gli oggetti materiali da quelli immateriali».

 

In accordo con Jean-Baptiste Say, che definisce così la felicità del consumo, non molto tempo fa Jan Tinbergen proponeva di ribattezzare il PNL semplicemente FNL (felicità nazionale lorda). In realtà, questa pretesa arrogante dell’economista olandese è solo un ritorno alle fonti. Se la felicità si materializza in benessere, versione eufemizzata del «ben avere», qualsiasi tentativo di trovare altri indicatori di ricchezza e di felicità sarebbe vano. Il PIL è la felicità quantificata.

 

È facile condannare questa pretesa di equiparare felicità e PIL pro capite, dimostrando che il prodotto interno o nazionale misura solo la «ricchezza» commerciale. In effetti, dal PIL sono escluse le transazioni fuori mercato (lavori domestici, volontariato, lavoro in nero), mentre invece le spese di «riparazione»sono contate in positivo e i danni generati (esternalità negative) non vengono dedotti, neppure la perdita del patrimonio naturale. Si dice ancora che il PIL misura gli outputs o la produzione, non gli outcomes o i risultati.

 

È appropriato ricordare il bellissimo discorso di Robert Kennedy (scritto probabilmente da John Kenneth Galbraith) pronunciato qualche giorno prima del suo assassinio. «Il nostro PIL (…) include l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le corse delle ambulanze che raccolgono i feriti sulle strade. Include la distruzione delle nostre foreste e la scomparsa della natura. Include il napalm e il costo dello stoccaggio dei rifiuti radioattivi. In compenso, il pil non conteggia la salute dei nostri bambini, la qualità della loro istruzione, l’allegria dei loro giochi, la bellezza della nostra poesia o la saldezza dei nostri matrimoni. Non prende in considerazione il nostro coraggio, la nostra integrità, la nostra intelligenza, la nostra saggezza. Misura qualsiasi cosa, ma non ciò per cui la vita vale la pena di essere vissuta».

 

La società economica della crescita e del benessere non realizza l’obiettivo proclamato dalla modernità, cioè: la felicità più grande per il maggior numero di persone. Lo constatiamo chiaramente. «Nel XIX secolo, nota Jacques Ellul, la felicità è legata essenzialmente al benessere, ottenuto grazie a mezzi meccanici, industriali, e grazie alla produzione. (…) Una tale immagine della felicità ci ha condotti alla società del consumo. Adesso che sappiamo per esperienza che il consumo non fa la felicità, conosciamo una crisi di valori». Il fatto è che nella riduzione economicista , come osserva Arnaud Berthoud, «tutto ciò che fa la gioia di vivere insieme e tutti i piaceri dello spettacolo sociale dove ognuno si mostra agli altri in tutti i luoghi del mondo – mercati, laboratori, scuole, amministrazioni, vie o piazze pubbliche, vita domestica, luoghi di svago… sono rimossi dalla sfera economica e collocati nella sfera della morale, della psicologia o della politica. La sola felicità che ci si aspetta ancora dal consumo è separata dalla felicità degli altri e dalla gioia comune». (…)

 

Il progetto di una «economia» civile o della felicità sviluppato soprattutto da un gruppo di economisti italiani (rappresentato principalmente da Stefano Zamagli, Luigino Bruni, Benedetto Gui, Stefano Bartolini e Leonardo Becchetti) si ricollega alla tradizione aristotelica e trae origine da una critica dell’individualismo. La costruzione di una tale economia resuscita la «publica felicità» di Antonio Genovesi e della scuola napoletana del XVIII secolo che il trionfo dell’economia politica scozzese ha respinto. La felicità terrestre, in attesa della beatitudine promessa ai giusti nell’aldilà, generata da un governo retto (buon governo) che persegue la ricerca del bene comune era, in effetti, l’oggetto di riflessione degli Illuministi napoletani. Integrando il mercato, la concorrenza e la ricerca da parte del soggetto commerciale di un proprio interesse personale, essi non ripudiavano l’eredità del tomismo. Questi teorici dell’economia civile sono perfettamente coscienti del «paradosso della felicità» riscoperto dall’economista americano Richard Easterlin. «È legge dell’universo – scriveva Genovesi – che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri». Ci sono voluti due secoli di distruzione frenetica del pianeta grazie al «buon governo» della mano invisibile e dell’interesse individuale eretto a divinità per riscoprire queste verità elementari. (…)

 

 

Merci fittizie

 

Come aveva visto bene Baudrillard a suo tempo, «una delle contraddizioni della crescita è che produce beni e bisogni allo stesso tempo, ma non li produce allo stesso ritmo». Ne risulta ciò che egli chiama «una pauperizzazione psicologica», uno stato di insoddisfazione generalizzata, che, dice, «definisce la società di crescita come l’opposto di una società di abbondanza». La frugalità ritrovata permette di ricostruire una società di abbondanza sulla base di quello che Ivan Illich chiamava la «sussistenza moderna». Vale a dire, «il modo di vita in un’economia postindustriale all’interno della quale le persone sono riuscite a ridurre la propria dipendenza nei confronti del mercato, e l’hanno fatto proteggendo – con mezzi politici – un’infrastruttura in cui tecniche e strumenti servono, essenzialmente, a creare valori di uso non quantificato e non quantificabile dai fabbricanti professionali di bisogni». Si tratta di uscire dall’immaginario dello sviluppo e della crescita, e di re-incastonare il dominio dell’economia nel sociale attraverso una Aufhebung (toglimento/superamento).

 

Tuttavia, uscire dall’immaginario economico implica rotture molto concrete. Sarà necessario fissare regole che inquadrino e limitino l’esplosione dell’avidità degli agenti (ricerca del profitto, del sempre più): protezionismo ecologico e sociale, legislazione del lavoro, limitazione della dimensione delle imprese e così via. E in primo luogo la «demercificazione» di quelle tre merci fittizie che sono il lavoro, la terra e la moneta. Si sa che Karl Polanyi vedeva nella trasformazione forzata di questi pilastri della vita sociale in merci il momento fondante del mercato autoregolatore. Il loro ritiro dal mercato mondializzato segnerebbe il punto di partenza di una reincorporazione/reinnesto dell’economia nel sociale. Parallelamente a una lotta contro lo spirito del capitalismo, sarà opportuno dunque favorire le imprese miste in cui lo spirito del dono e la ricerca della giustizia mitighino l’asprezza del mercato. Certo, per partire dallo stato attuale e raggiungere «l’abbondanza frugale», la transizione implica nuove regole e ibridazioni e in questo senso le proposte concrete degli altermondialisti, dei sostenitori dell’economia solidale fino alle esortazioni alla semplicità volontaria, possono ricevere l’appoggio incondizionato dei partigiani della decrescita. Se il rigore teorico (l’etica della convinzione di Max Weber) esclude i compromessi del pensiero, il realismo politico (l’etica della responsabilità) presuppone il compromesso per l’azione. La concezione dell’utopia concreta della costruzione di una società di decrescita è rivoluzionaria, ma il programma di transizione per giungervi è necessariamente riformista. Molte proposte «alternative» che non rivendicano esplicitamente la decrescita possono dunque felicemente trovare posto all’interno del programma.

 

Lo spirito del dono

 

Un elemento importante per uscire dalle aporie del superamento della modernità è la convivialità. Oltre ad affrontare il riciclaggio dei rifiuti materiali, la decrescita si deve interessare alla riabilitazione degli emarginati. Se lo scarto migliore è quello che non è prodotto, l’emarginato migliore è quello che la società non genera. Una società decente o conviviale non produce esclusi. La convivialità, il cui termine Ivan Illich prende in prestito dal grande gastronomo francese del XVIII secolo Brillat Savarin (Le fisiologia del gusto. Meditazioni di gastronomia trascendentale), mira appunto a ritessere il legame sociale smagliato dall’«orrore economico» (Rimbaud). La convivialità reintroduce lo spirito del dono nel commercio sociale accanto alla legge della giungla e riprende così la philia (amicizia) aristotelica, ricordando al contempo lo spirito dell’agape cristiana. Questa preoccupazione si ricollega appieno all’intuizione di Marcel Mauss che nel suo articolo del 1924, Apprezzamento sociologico del bolscevismo, sostiene, «a rischio di apparire antiquato» di dover tornare «ai vecchi concetti greci e latini di caritas (che oggi traduciamo così male con carità), di philia, di koinomia, di questa “amicizia” necessaria, di questa “comunità” che sono l’essenza delicata della città».

 

È importante anche scongiurare la rivalità mimetica e l’invidia distruttrice che minacciano ogni società democratica. Lo spirito del dono, fondamentale per la costruzione di una società di decrescita, è presente in ognuna delle R che formano il cerchio virtuoso proposto per dare vita all’utopia concreta della società autonoma. Soprattutto nella prima R, rivalutare, poiché indica la sostituzione dei valori della società commerciale (la concorrenza esacerbata, il ciascuno per sé, l’accumulo senza limiti) e della mentalità predatrice nei rapporti con la natura, con i valori di altruismo, di reciprocità e di rispetto dell’ambiente. Il mito dell’inferno dalle lunghe forchette con cui si apre la seconda parte del libro La scommessa della decrescita è esplicito: l’abbondanza abbinata al ciascuno per sé produce miseria, mentre la spartizione, pur nella frugalità, genera soddisfazione in tutti, perfino gioia di vivere. La seconda R, riconcettualizzare, insiste invece sulla necessità di ripensare la ricchezza e la povertà. La «vera» ricchezza è fatta di beni relazionali, quelli fondati appunto sulla reciprocità e la non rivalità, il sapere, l’amore, l’amicizia. Al contrario, la miseria è soprattutto psichica e deriva dall’abbandono nella «folla solitaria», con cui la modernità ha sostituito la comunità solidale. (…)

 

È imperativo ridurre il peso del nostro modo di vita sulla biosfera, ridurre l’impronta ecologica i cui eccessi si traducono in prestiti richiesti alle generazioni future e all’insieme del cosmo, ma anche al Sud del mondo. Abbiamo dunque l’obbligo di dare in cambio ciò che si trova al centro della maggior parte delle altre R: ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Ridistribuire rimanda all’etica della spartizione, ridurre (la propria impronta ecologica) al rifiuto della predazione e dell’accaparramento, riutilizzare, al rispetto per il dono ricevuto e riciclare, alla necessità di restituire alla natura e a Gaia ciò che è stato preso in prestito da loro.

 

Questa la differenza sostanziale tra il ben-avere e il ben-essere e i passaggi necessari per raggiungerlo.

 

Serge Latouche

Traduzione di Laura Pagliara

 

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Fabio Calabrese: “La storia d’Italia rivista alla luce dei fatti realmente accaduti…”

Il grande equivoco

 

Come tutti sappiamo, nel 2011 cadranno i centocinquanta anni dell’unità italiana, ma le celebrazioni e le polemiche sono iniziate già molto prima di questa data. Nel dicembre 2009 la Arianna Editrice ha ripreso un articolo di Michele Fabbri ripreso dal sito del Centro Studi La Runa, che è una recensione del libro Le radici della vergogna di Elena Bianchini Braglia.

 

Il motivo addotto da Fabbri citando la Bianchini, per cui molti Italiani si vergognano o si vergognerebbero di essere tali, risale alle storture e agli orrori, ai lati oscuri del nostro risorgimento.

 

Io personalmente non mi vergogno affatto di essere italiano, ritengo la mia identità

nazionale una parte molto importante di ciò che definisce la mia identità come uomo. Mandai alla Arianna Editrice una replica che essa pubblicò con grande correttezza; replica nella quale riguardo all’atteggiamento antipatriottico e antirisorgimentale così diffuso, esprimevo il concetto che:

Si tratta prima di tutto di una forma di snobismo, di snobismo meschino, da anticonformisti fabbricati in serie, rigorosamente uguali a tutti gli altri anticonformisti, che credono di mostrare chissà quale originalità di pensiero proclamandosi antipatriottici, e non riescono a capire che in questa nostra “serva Italia di dolore ostello”, è per proclamarsi italiani a testa alta, che ci vuole coraggio.

Nel marzo 2010 mi è capitato di leggere il bell’articolo di Maurizio Blondet sul sito della Effedieffe, Senza verità, niente risorgimento, dove le ragioni antirisorgimentali sono esposte con chiarezza e persuasività.

 

Certo, il risorgimento lati oscuri ne ha avuti e non pochi, e occorrerebbe un’assoluta cecità per non volerlo ammettere.

 

D’un tratto, ho avuto una sorta di intuizione: Non è che tutti noi, patrioti e antirisorgimentali siamo caduti in un equivoco, confondendo due cose molto diverse che sarebbe ora di tenere ben distinte?

 

Da un lato il sano, normale, doveroso senso di appartenenza alla propria nazione, la cui identità, unità e indipendenza sono state conculcate per secoli e, per quanto riguarda il fenomeno risorgimentale, l’insorgenza spontanea del nostro popolo stanco dell’oppressione e della dominazione straniere. Dall’altro, un movimento politico di uomini con tutt’altre finalità che a un certo punto si è impadronito del moto popolare distorcendolo a finalità non dichiarate e di tutt’altro genere.

 

Il caso è forse analogo alla storia dei movimenti socialisti che sono nati dalla ribellione naturale e legittima delle classi lavoratrici di fronte allo sfruttamento e alle ingiustizie della rivoluzione industriale, confiscata poi da una intellighenzia volta a instaurare il sistema di tirannidi e privilegi di tipo sovietico.

 

La confusione fra le due cose, il normale senso di appartenenza alla nostra nazione e l’inconsapevole complicità con l’internazionalismo massonico volto a scalzare i fondamenti dell’Europa tradizionale (con tinteggiature più o meno risorgimentali), è il grande equivoco che ha pesato sinistramente su tutta la nostra storia, forse secondo solo all’altro grande equivoco immenso e rosso che ha indotto a scambiare l’insieme di tirannidi più sanguinarie della storia per il movimento di liberazione dei lavoratori.

 

Adesso di quest’ultimo non ci occuperemo, ma vedremo di dissipare una volta per tutte quello che aduggia le radici della nostra storia patria.

Giuseppe Mazzini forse uno dei pochissimi ingenui in buona fede che si sono trovati alla testa del moto risorgimentale, dimostrò un barlume di comprensione quando, riguardo all’insurrezione parigina del 1830 che determinò il passaggio del potere dai castelli alle banche, scrisse (Dei doveri degli uomini):

“Chiamate traditori quegli uomini? Dovreste chiamare traditrici le loro idee.

La verità pura e semplice, è che, almeno dopo il 1848, il moto risorgimentale, tanto nella variante garibaldina quanto in quella cavouriana (il solito gioco delle parti fra destra e sinistra fra le quali non c’è nessuna differenza sostanziale) fu sponsorizzato dalla massoneria internazionale le cui teste si trovavano a Washington, Londra e Parigi. L’unità italiana fu un effetto collaterale di un movimento le cui finalità erano altre, tendente a sostituire in tutta Europa la tradizionale egemonia del sangue delle classi aristocratiche con quella del denaro.

 

Tutte le volte che l’interesse dell’Italia era in contrasto con quello della loggia, i patrioti scelsero quest’ultimo, dando così un’implicita dimostrazione di quale fosse la loro vera patria. Cominciarono i garibaldini comandati da Nino Bixio reprimendo con estrema durezza l’insurrezione contadina di Bronte; lì c’era la Ducea di Nelson, lì c’erano interessi inglesi da tutelare. Cerchiamo di avere le idee chiare a questo proposito: mille uomini o poco più, quante erano le camicie rosse, non avrebbero mai potuto avere la meglio su di un regno esteso a metà della Penisola come era quello borbonico, senza il consenso e l’attivo sostegno delle popolazioni. Pochi anni dopo esplodeva nel meridione la rivolta popolare fatta passare per brigantaggio, lo scollamento fra le plebi meridionali e lo stato unitario era completo. Questo lo si dovette all’esosa fiscalità piemontese, al servizio di leva obbligatorio, ma prima ancora a Bronte ed episodi dello stesso genere.

 

Nel 1870 i garibaldini accorrono in Francia ad aiutare Napoleone III contro i Prussiani, quello stesso Napoleone III, per intenderci, che nel 1848 aveva soffocato nel sangue la Repubblica Romana, che nel 1859 aveva abbandonato il Piemonte in guerra con l’Austria concludendo unilateralmente l’armistizio di Villafranca, che nonostante ciò nel 1860 aveva preteso ugualmente l’annessione di Nizza e della Savoia, le cui truppe nel 1867 a Mentana avevano fatto a pezzi gli stessi garibaldini, e che al momento presente era l’ostacolo all’annessione di Roma.

Peggio, molto peggio fecero i diretti eredi di Cavour, la cosiddetta destra storica nel quindicennio 1861-1876, che rinunciarono a priori a qualsiasi progetto di sviluppo industriale e di espansione coloniale perché l’Italia non entrasse in concorrenza con gli interessi inglesi e francesi. Un ritardo che, sommandosi a quelli accumulati nella nostra storia preunitaria, doveva avere conseguenze pesanti per noi per quasi un secolo.

 

Poiché bene o male, più male che bene, l’Italia era stata fatta, se se ne voleva fare una nazione in grado di avere un posto nel concerto delle potenze degno della sua storia e del suo popolo, occorreva una politica che fosse precisamente l’opposto di quella che la destra storica aveva perseguito: industrializzazione, espansione coloniale e un riavvicinamento al mondo germanico.

 

L’Austria, contro cui avevamo combattuto la maggior parte delle guerre risorgimentali, non era stato che l’ultimo di una lunga serie di invasori e dominatori stranieri iniziata con gli Eruli di Odoacre e gli Ostrogoti di Teodorico.

 

Quello che possiamo considerare il primo episodio di quel ritrovato orgoglio nazionale che diede vita al risorgimento, non fu una rivolta contro gli Austriaci ma contro i Francesi: la ribellione di Verona ai soprusi delle truppe napoleoniche, che doveva portare alla repressione tristemente nota come pasque veronesi; i Francesi erano poi stati di nuovo nostri nemici nel 1848, quando le truppe di Napoleone III erano accorse a soffocare la repubblica romana e a ripristinare lo stato pontificio. Con la Prussia, divenuta impero germanico nel 1871, non avevamo nessun genere di contenzioso; anzi, era grazie ad essa e a Bismark, che avevamo avuto il Veneto nel 1866 e il Lazio con Roma nel 1870.

 

La Triplice Alleanza stipulata da Germania, Austria-Ungheria e Italia nel 1882 era nella logica delle cose; non solo per l’Italia era essenziale in quanto l’esigenza di una politica coloniale la portava in diretto conflitto con Francia e Inghilterra, ma, considerando le cose in una prospettiva geopolitica e geostrategica, il mondo italo-austro-germanico rappresentava un asse naturale, il nucleo, lo zoccolo duro dell’Europa di fronte alla doppia minaccia alla sua preminenza planetaria che veniva da occidente con Londra e Parigi che recitavano sempre più il ruolo di battistrada e vassalli della potenza d’oltre atlantico, e da oriente nella forma fino al 1917 del panslavismo e, a partire da quella data, del comunismo sovietico.

 

Non si può che constatare la veridicità dell’affermazione di Julius Evola secondo cui l’Italia si trovò a dover combattere la seconda guerra mondiale dalla parte giusta per aver combattuto la prima dalla parte sbagliata. Semmai, si può osservare che se il primo tempo dell’immane conflitto che lacerò il nostro continente dal 1914 al 1945 si fosse concluso con la sconfitta dei nemici dell’Europa, probabilmente avremmo potuto affrontare il secondo in condizioni molto migliori, o forse esso non sarebbe stato nemmeno necessario, e la partecipazione dell’Italia dalla parte giusta fin dal primo momento, avrebbe forse potuto fare la differenza.

 

Il capovolgimento di fronte del maggio 1915 per l’Italia non fu soltanto il vergognoso preludio di quell’altro disonorevole voltafaccia avvenuto l’8 settembre 1943, ma obbiettivamente andò contro l’interesse nazionale italiano e nella direzione del suicidio dell’Europa, perché sotto le bandiere dell’Intesa erano raccolte le forze anti-europee, in particolare le due potenze che si spartiranno il nostro continente nel 1945 al termine di uno scontro trentennale di cui le due guerre mondiali non furono che il primo e il secondo tempo.

 

Ancora oggi gli storici (che solitamente riflettono il punto di vista dei vincitori) dimostrano un singolare imbarazzo nel parlare della prima guerra mondiale, un conflitto che sembrerebbe senza cause. E’ perlomeno strano che quello che secondo ogni logica sarebbe dovuto essere un localizzato conflitto austro-serbo (provocato dall’assassinio del principe ereditario austriaco da parte di un terrorista serbo, non scordiamolo), si sia trasformato all’improvviso in una deflagrazione europea e mondiale in base a null’altro che al meccanismo impazzito delle alleanze.

 

Ciò non è credibile e, per svelare il mistero, occorre porsi la domanda che si fa ogni buon detective, cui prodest? A chi giova? Chi era interessato a scatenare sul continente europeo un conflitto altamente distruttivo e di lunga durata? Questa domanda ci indirizza verso un indiziato preciso: la Gran Bretagna.

 

La rivoluzione industriale, lo sappiamo, è iniziata in Gran Bretagna già alla metà del XVIII secolo ed ha assicurato agli Inglesi per tutto l’ottocento un’egemonia planetaria, ma alla fine del XIX secolo l’apparato industriale britannico era ormai obsoleto e perdeva terreno sotto i colpi della concorrenza di due nuove potenze industriali: gli Stati Uniti e la Germania: la scienza tedesca, la tecnica tedesca, l’organizzazione tedesca in particolare erano la meraviglia del tardo XIX secolo. Gli Stati Uniti erano a ogni modo fuori dalla portata del raggio d’azione britannico ed avevano una sfera d’influenza distinta da quella del Vecchio Mondo, ma la Germania era tutto un altro affare, con i Tedeschi si potevano regolare i conti in maniera diretta, anche perché la natura insulare dell’Inghilterra la metteva al riparo dalle conseguenze più distruttive di una guerra continentale.

 

Queste non sono illazioni: abbiamo una testimonianza precisa che finora gli storici hanno (scientemente o no) ignorato circa il fatto che nei circoli del potere britannico, alle spalle della politica ufficiale, si è preparata la conflagrazione di cui l’attentato di Sarajevo ha costituito l’innesco. Questa testimonianza ci viene da un uomo che scontò con la detenzione la sua opposizione al conflitto, un uomo che molti considerano il maggior filosofo del XX secolo, e che fu certamente uno degli spiriti più indipendenti della sua epoca, il filosofo inglese Bertrand Russell, una testimonianza a dire il vero presentata in una forma abbastanza curiosa, al punto da far pensare che Russell abbia ritenuto che certe cognizioni potessero o possano circolare solo in forma semiclandestina.

 

In un testo dal buffo titolo, Il terribile giuramento della signorina X, che comprende le non frequenti incursioni di Russell nel campo della narrativa, troviamo un brano molto interessante dal nostro punto di vista, che non contiene esercitazioni letterarie:

 

Leggendo la storia come non viene mai scritta, ne riporto uno stralcio.

Russell in particolare indica un nome preciso fra i politici britannici che furono responsabili di aver preparato il conflitto all’insaputa della nazione, del parlamento, di gran parte dello stesso governo: sir Edward Grey:

Sir Edward Grey, allora all’opposizione, parlò a favore di quella che poi diventò la politica delle Ententes con la Francia e la Russia, che venne adottata dal governo conservatore circa due anni più tardi e successivamente consolidata da sir Edward Grey quando egli divenne ministro degli esteri. Espressi con decisione il mio parere contro questa politica, che a mio avviso conduceva dritto alla guerra mondiale

Naturalmente, sir Edward Grey non era il solo.

Quando la flotta russa sparò contro dei pescherecci inglesi al Dogger Bank, approvai Arthur Balfour [Il primo ministro di allora] del quale in genere pensavo male, perché trattò l’incidente con spirito conciliante. Non mi accorsi allora che stava soltanto preparando guerre di più vasta portata (…).

Ancora meno mi accorsi che durante le elezioni generali del 1906 quando i liberali venivano appoggiati soprattutto perché meno guerrafondai dei tories, sir Edward Grey, senza che né il parlamento né la nazione e neppure la maggior parte del governo ne fossero al corrente, diede il via a quegli accordi militari e navali con la Francia, che c’impegnavano se non altro per una questione d’onore, a sostenere la Francia in guerra, sebbene sir Edward Grey ripetesse più volte in Parlamento l’affermazione che non eravamo impegnati. Il nostro accordo con la Francia ci impegnava ad appoggiare la conquista francese del Marocco, che era un’avventura imperialista del tutto ingiustificata, e condusse a violente dispute con la Germania.

 

Il nostro appoggio alla Russia ebbe conseguenze anche peggiori. Il governo russo soppresse spietatamente la rivolta del 1905, soprattutto in Polonia. I Russi invasero anche la Persia settentrionale e persuasero sir Edward Grey a unirsi a loro per soffocare i tentativi di Morgan Shuster di introdurre in quel Paese un ordinato regime costituzionale. Tutte le atrocità zariste venivano sminuite da sir Edward Grey, che fece tutto ciò che l’opinione pubblica era disposta a sopportare per scoraggiare gli aiuti ai ribelli russi e polacchi (…).

 

Nei giorni in cui lo scoppio della guerra era chiaramente vicino, speravo con tutte le mie forze che l’Inghilterra restasse neutrale. Sapevo che la Germania del Kaiser, sebbene avesse molti difetti, era molto più liberale di qualsiasi regime di quei tempi, tranne quelli dell’Olanda e della Scandinavia. La Russia zarista aveva da molto tempo riempito d’orrore tutta la gente d’idee liberali, e trovavo intollerabile l’idea di entrare in guerra per sostenerla. Persuasi un gran numero di accademici di Cambridge a firmare una lettera da indirizzare ai giornali a favore della neutralità. Il giorno dopo l’inizio della guerra nove su dieci di quegli accademici espressero il loro disappunto per averla firmata. The Nation, il settimanale liberale diretto da Massingham, teneva un pranzo redazionale ogni martedì: andai a quel pranzo il 4 agosto e trovai Massingham e i suoi redattori tutti conviti fautori della neutralità. Poi, dopo solo poche ore, l’Inghilterra entrò in guerra e Massingham mi scrisse la mattina successiva, cominciando Oggi non è ieri … e ritirando tutto ciò che aveva detto il giorno prima. Quasi tutti quelli che negli anni precedenti erano stati oppositori di sir Edward Grey diventarono nel giro di una notte suoi convinti sostenitori. La loro scusa era l’invasione del Belgio da parte dei Tedeschi. Da anni sapevo dai miei amici del collegio dello stato maggiore che in caso di guerra la Germania avrebbe invaso il Belgio. Fui sbalordito di scoprire che tanti uomini politici di primo piano e giornalisti avevano ignorato questo fatto facilmente accertabile, e che tutti i loro pronunciamenti pubblici erano dipesi da questa loro ignoranza.

 

La massoneria non aveva amici e strumenti solo a Londra per realizzare il piano inteso a gettare l’Europa nel baratro di un conflitto continentale e mondiale. Una decisione fatale che portò il conflitto austro-serbo a trasformarsi in una deflagrazione planetaria fu la decisione russa di mobilitare le truppe non solo sulla frontiera austriaca ma anche su quella tedesca, essa provocò l’intervento nel conflitto della Germania e, stante l’alleanza anti-tedesca di Francia e Russia, l’apertura del fronte occidentale.

 

Ebbene, ci rivela Russell, questa decisione così catastrofica fu presa da un solo uomo, il ministro Sokolnikov, all’insaputa dello zar e del suo governo.

Uno dei fatti che ebbero un’influenza decisiva nel provocare la guerra generale, fu la mobilitazione dell’esercito russo, che fu ordinata dal ministro della Guerra Sokolnikov, all’insaputa dello zar. Fu questo che indusse i Tedeschi a rompere i negoziati.

 

Ma il patriottismo di Sokolnikov era di tipo particolare. Quando gli Inglesi e i Francesi inviarono rifornimenti alla Russia, Sokolnikov li vendette ai Tedeschi. Per sua sfortuna, la Rivoluzione russa gli tolse la possibilità di godersi il ricavato.

Fu la mia prima esperienza dell’isterismo di massa, e fu difficile per il mio spirito resistere. Pensavo, quando mi trovavo su un autobus o su un treno, Se questa gente sapesse quello che penso io, mi farebbe a pezzi.

 

La stampa era piena di false storie di atrocità, ma chiunque ne dubitasse era un traditore. Appresi più tardi da fonte autorevole che dei film che illustravano atrocità venivano prodotti da una società cinematografica nel Bois de Boulogne e venduti ai belligeranti di entrambe le parti, cambiando solo le didascalie. La storia che i Tedeschi usavano cadaveri umani per fare gelatina venne inventata su misura da un giovane in un ufficio governativo a Londra. Si dimostrò molto efficace e fu una delle principali cause che provocarono l’intervento in guerra, dalla nostra parte, dei cinesi (…).

 

Gli scopi cosiddetti ideali della guerra offersero alla gente il pretesto per scatenare tutta la ferocia che fino ad allora le regole del vivere civile erano riuscite a mascherare. Mi ricordo in un periodo in cui la guerra andava male e si parlava di pace, che Sydney Webb disse: Dobbiamo tenere i soldati sotto pressione. Questo era un atteggiamento abbastanza comune tra chi era esentato dal servizio militare per l’età o per il sesso o per gli ordini sacri.

 

Il patriottismo naturalmente aveva i suoi limiti. Quando allo scoppio della guerra si formò un governo di coalizione, esso comprendeva sir Edward Carson che aveva da poco comprato armi dal Kaiser, che dovevano essere usate contro il governo inglese [in questo punto vi deve essere nel testo un errore di traduzione o un refuso. Si noti che in questi termini la frase non ha senso, mentre ne avrebbe se fosse Sir Edward Carson che aveva da poco venduto armi al Kaiser, che dovevano essere usate contro il governo inglese].

 

Scrissi a un amico in America facendo presente quanto questi uomini incrementassero lo sforzo bellico, ma credo che la censura impedì alla mia lettera di arrivare a destinazione.

 

Lo stesso atteggiamento nello stesso tempo di truce revanscismo e di totale irresponsabilità riguardo al futuro dell’Europa, i politici britannici lo mostrarono al momento delle trattative di pace (e questo è un discorso che riguarda anche noi che alla pace di Parigi fummo particolarmente maltrattati).

 

Le elezioni tenute sulla questione se impiccare il Kaiser subito dopo l’armistizio furono una vergogna sia per il paese sia per il governo. Il governo accettò per placare il clamore popolare, di chiedere ai Tedeschi un’indennità di 26 miliardi di sterline. Quando, dopo le elezioni, qualcuno fece presente a Lloyd George [primo ministro britannico nel 1918] che questa somma era assolutamente eccessiva, Lloyd George rispose: Caro signore, se le elezioni fossero durate altre tre settimane, i Tedeschi avrebbero dovuto pagare 50 miliardi. Allora e durante i negoziati di Versailles, Lloyd George era perfettamente conscio che l’opinione pubblica, assetata di vendetta, richiedeva cose impossibili, ma pur ammettendo questa consapevolezza, era cinicamente disposto a rovinare il mondo pur di conquistare la maggioranza.

Utilizzando la stessa tecnica astuta usata dalla Francia di Richelieu durante la guerra dei trent’anni, Gli Stati Uniti limitarono a lungo la loro partecipazione al conflitto al sostegno economico e materiale a una delle due parti in lotta, per intervenire direttamente solo quando gli altri contendenti erano ormai stremati, e cogliere la vittoria a poco prezzo, ma le motivazioni ultime dell’intervento americano rappresentano un punto che non è stato mai adeguatamente chiarito.

L’affinità etnica, linguistica e culturale con la Gran Bretagna, spesso invocata come spiegazione, è un argomento del tutto inconsistente. Fino alla metà del XIX secolo e oltre, nonostante questa affinità, i rapporti angloamericani erano stati pessimi. Gli Stati Uniti, tra il tardo XVIII e il primo XIX secolo avevano combattuto con l’Inghilterra due guerre d’indipendenza la seconda delle quali aveva in realtà come posta il possesso del Canada. Nello stesso periodo, gli eredi di Washington e Franklin erano stati scopertamente dalla parte prima della Francia rivoluzionaria poi di Napoleone. Durante la guerra di secessione americana la Gran Bretagna aveva appoggiato il sud secessionista.

 

La difesa e/o l’esportazione a livello planetario della democrazia è una specie di alibi standard della politica americana di ogni tempo e luogo, ma in realtà non ha significato a meno di non considerare che per democrazia non si intendono genericamente sistemi politici rappresentativi che accordino libertà ai loro sudditi/cittadini, ma una precisa ideologia liberal-massonica che implica parecchie cose, a cominciare dalla superiorità e supremazia degli stessi Stati Uniti, e in questo non differisce in maniera sostanziale dalla funzione del comunismo come giustificazione del sistema di tirannidi che faceva capo all’Unione Sovietica.

 

La Germania e l’Austria del tardo XIX secolo erano molto diverse dall’Austria e dalla Prussia di un secolo prima, erano fra gli stati più avanzati d’Europa sia in termini di diritti civili sia di riforme sociali, non meno, e probabilmente di più della Francia e dell’Inghilterra, per non parlare dell’Italia che aveva introdotto il suffragio universale soltanto nel 1912 o dell’impero zarista che rimaneva un abisso di arretratezza. Ricordiamo le parole di Russell: solo i regimi dell’Olanda e della Scandinavia erano a quel tempo più progrediti di quello tedesco.

 

La motivazione vera emerge con tutta chiarezza dal riconoscimento del carattere ingannevole di questi alibi: a Washington si era capito benissimo che la distruzione dell’economia tedesca non avrebbe risollevato le sorti del declinante industrialesimo britannico, e che il vuoto creato dal conflitto sarebbe stato una splendida occasione per imporre al Vecchio Continente l’egemonia economica e industriale americana. Appoggiando l’Intesa, gli Stati Uniti avevano scelto la decadenza del nostro continente.

 

E l’Italia? La partecipazione italiana al conflitto dalla parte dell’Intesa, ossia gli anglo-francesi e i loro alleati, fu decisa dal re, dalla corte, da una parte del governo in spregio alla Triplice Alleanza e all’insaputa e contro quella che era la volontà palesemente espressa del Paese e dello stesso parlamento che fu scavalcato. Era una decisione che rispondeva realmente all’interesse italiano o non piuttosto a quello della massoneria internazionale cui casa Savoia era indiscutibilmente legata?

 

La giustificazione classica, il completamento dell’edificio risorgimentale, il pieno raggiungimento dell’unità nazionale con l’annessione di Trento e Trieste, è a conti fatti tutt’altro che persuasiva, perché le vicende della nostra storia avevano lasciato altrettante terre italiane sotto il dominio delle potenze dell’Intesa: Malta sotto il dominio britannico, in mani francesi la Corsica cui nel 1860 si erano aggiunte Nizza e la Savoia in cambio della partecipazione francese alla seconda guerra d’indipendenza (e del voltafaccia di Villafranca), ma soprattutto per un’Italia che aspirasse al rango di grande potenza europea la vera posta in gioco sarebbe dovuta essere l’espansione coloniale, ed era chiaro che qui erano proprio Francia ed Inghilterra a sbarrarci la strada; di più, il controllo inglese del Mediterraneo attraverso l’asse Gibilterra-Malta-Alessandria ci costringeva di fatto entro le nostre acque territoriali. In sostanza, nessuno dei motivi che ci avevano indotti a stipulare la Triplice Alleanza nel 1882, e che poi saranno gli stessi in ultima analisi che ci indurranno a una nuova alleanza con la Germania fra le due guerre, aveva perso di validità.

 

A leggere la storia delle trattative intercorse fra l’Italia e gli Imperi Centrali da un lato, l’Intesa dall’altro nei dieci mesi che intercorsero fra lo scoppio del conflitto e il nostro intervento, c’è di che rimanere esterrefatti: da parte austriaca si era disposti a concedere la cessione del Trentino e la costituzione di Trieste in territorio libero in cambio anche della sola garanzia della nostra neutralità. Davvero l’Italia ha affrontato lo spaventoso carnaio della prima guerra mondiale, mezzo milione di morti solo per avere il Tirolo meridionale, quello che poi è divenuto l’Alto Adige: quattro montagne e una terra e una popolazione che non erano e mai erano state italiane?

 

La questione di Trieste, poi, era un po’ diversa da come di solito viene presentata dai libri di testo. La città giuliana era indiscutibilmente italiana di lingua, cultura e storia, ma il suo sviluppo a partire dal XVII e XVIII secolo era avvenuto come sbocco sul Mediterraneo dell’impero degli Asburgo, come porto ed emporio che metteva in comunicazione i traffici del Mediterraneo con l’area centroeuropea e balcanica. Staccare la città da questo vasto retroterra che ne faceva uno dei porti più importanti del Mediterraneo, avrebbe significato l’inevitabile declino della città. Consapevoli di ciò, i triestini non aspiravano tanto a staccarsi dallo stato austriaco, quanto a un sistema di ampie autonomie che consentisse alla città di tutelare il suo carattere etnico e culturale italiano senza recidere i legami con quel vasto retroterra da cui dipendeva la sua prosperità, in sostanza proprio ciò che l’Austria aveva offerto all’Italia nel 1914 in cambio della semplice neutralità.

 

Avevano torto? Dopo il collasso dello stato austriaco, la decadenza della città è stata inarrestabile, e oggi è a malapena il fantasma di quel che era un secolo fa, anche se il colpo peggiore è arrivato alla fine della seconda guerra mondiale con l’amputazione dell’Istria e di tutto l’hinterland che un tempo la città aveva. Oggi Trieste è una città di pensionati, le cui attività economiche si riducono al pubblico impiego e al piccolo traffico di frontiera, con l’attività portuale e la cantieristica calate praticamente a zero, in costante calo demografico, dalla quale i giovani sono costretti ad andarsene se vogliono trovare un’occupazione.

 

C’è un aspetto di questa vicenda che è ancor meno noto: consideriamo semplicemente la geografia: alla metà dell’ottocento la città giuliana mancò l’occasione di diventare un porto d’importanza mondiale. Come collegamento naturale fra il Mediterraneo e l’Europa centrale e orientale, sarebbe stata la più idonea per la propria posizione a trarre i maggiori vantaggi da una via d’acqua che collegasse il Mediterraneo con i mari dell’Oriente evitando il periplo dell’Africa.

 

Il progetto del taglio dell’istmo di Suez poi realizzato dal francese Ferdinand Lesseps fu concepito in primo luogo e patrocinato con l’appoggio del governo austriaco, da un geniale uomo d’affari triestino, il barone Pasquale Revoltella, e dopo la realizzazione del canale fu a una nave triestina del Lloyd Austriaco (dal 1918 semplicemente Lloyd Triestino) che toccò l’onore di inaugurarlo. La cosa però durò poco: Inglesi e Francesi che avevano ben compreso l’importanza commerciale e strategica del canale, ne estromisero presto triestini ed austriaci. Sembra che voglia rivoltare il coltello nella piaga, ma i fatti sono quelli che sono: Francia e Inghilterra sono stati costantemente i cattivi geni della nostra storia dall’ottocento alla seconda guerra mondiale.

 

I patrioti triestini non avversavano tanto lo stato austriaco quanto il nazionalismo slavo allora in piena fase espansiva; questo semmai portava ad uno spirito di solidarietà fra l’elemento italiano e quello tedesco, anche perché sulla frontiera fra Mitteleuropa e mondo slavo, venivano a crearsi situazioni simili; si confrontino ad esempio Trieste e Praga: in entrambi i casi, una città di altra nazionalità si trovava a dover resistere all’assedio di un contado slavo, italiana Trieste, tedesca Praga, perché per quanto oggi possa sembrare singolare, quella che è oggi la capitale della Repubblica Ceca, fino al 1918 era una città tedesca, e in tedesco hanno scritto e pensato illustri boemi del passato: Sigmund Freud, Franz Kafka, Gregor Mendel.

 

L’assassinio di Sarajevo provoco a Trieste un’impressione fortissima. Le salme del principe ereditario Francesco Ferdinando e di sua moglie, imbarcate in Bosnia furono sbarcate a Trieste per essere traslate via terra fino a Vienna. C’è un filmato dell’epoca dove si vede il corteo funebre che attraversa Trieste circondato da una folla strabocchevole, composta ma oceanica.

 

La dichiarazione di guerra alla Serbia fu accolta con entusiasmo dai triestini, sembrava l’occasione di dare una bella e meritata lezione all’oltranzismo slavo di cui Gavrilo Princip, l’assassino di Sarajevo appariva l’incarnazione e l’epitome; naturalmente, i triestini non potevano prevedere che l’oltranzismo slavo avrebbe dato nei decenni seguenti ben altre dimostrazioni di ferocia, a cominciare dal genocidio a lungo misconosciuto delle foibe. In più, i triestini si aspettavano come imminente l’intervento italiano in base alla Triplice Alleanza, pur nella costernazione per l’assassinio del principe ereditario e nell’imminenza del conflitto, fu un momento magico in cui pareva di poter finalmente coniugare lealismo verso la casa d’Asburgo e patriottismo italiano.

 

Il voltafaccia del maggio 1915 gettò i triestini nella costernazione, si sentirono traditi dallo stato italiano. Non era l’ultima volta che i triestini erano destinati a provare questa sensazione, l’avrebbero provata spesso in particolare nel secondo dopoguerra e soprattutto dopo l’accordo di Osimo.

 

A Parigi nel 1919 provammo un’esperienza amarissima: la vittoria che i nostri fanti avevano conseguito sul campo con tanti sacrifici si trasformò in sconfitta al tavolo della pace. Succube da sempre della massoneria, casa Savoia aveva tradito la Triplice Alleanza per mettere il destino dell’Italia nelle mani dei suoi nemici naturali, ed ora Francia, Inghilterra e gli Stati Uniti che con poco sforzo si erano accaparrati la scena da protagonisti, ci trattavano non da alleati ma da nemici sconfitti.

Nella storia della prima guerra mondiale pubblicata a puntate dalla Domenica del Corriere nel 1968, Franco Bandini ha riassunto con grande efficacia la situazione.

 

Gli obiettivi su cui avremmo dovuto puntare erano] le colonie, gli indennizzi finanziari o in materiali, grandi prestiti, soprattutto americani, che ci aiutassero a vincere anche la nostra costituzionale debolezza economica. In altre parole sbocchi commerciali, fonti di reddito in materie prime, apporti di naviglio mercantile, materiali, denaro: tanto maggiori fossero state queste acquisizioni, tanto più forte e feconda sarebbe divenuta la nostra posizione nel Mediterraneo e in Europa.

Non facemmo nulla di tutto questo, gli occhi ostinatamente puntati sull’indistinta costa dalmata e sul magnetico punto focale di Fiume. Al tavolo verde della pace, gli alleati compresero rapidamente che potevano tenerci saldamente incatenati su questi pochi nomi, per essi di nessunissimo rilievo, e approfittarono destramente delle circostanze (…).

 

Gli alleati non potevano negarci la soddisfazione della polverizzazione dell’impero austriaco, semplicemente perché non era in loro potere resuscitare cadaveri. Ma si sarebbero opposti con energia a qualsiasi rivendicazione che intaccasse i loro interessi e i loro compensi: era chiudere gli occhi davanti alla verità pensare che l’Inghilterra non fosse almeno annoiata dalla nostra ipoteca navale sul Mediterraneo e la Francia da quella terrestre sui Balcani. Si sarebbero sempre opposte a qualsiasi aumento di potenza anche economica, che avrebbe potuto far divenire più potenti quelle ipoteche (…).

In quei tristi e amari mesi del 1919 perdemmo forse per molti decenni, non solo il risultato di quell’immane sacrificio che era stata la guerra, ma anche il frutto del paziente lavoro che i padri avevano accumulato nell’erezione di un grande stato nazionale dal 1870 in poi.

 

La guerra e il suo esorbitante costo umano a paragone della modestia dei risultati ottenuti ebbero effetti sconvolgenti sulla società italiana. Durante il cosiddetto biennio rosso l’Italia parve sull’orlo di una rivoluzione comunista e il fascismo ne uscì come risposta di quanti non soltanto borghesi non volevano che l’Italia si trasformasse in una tirannide di tipo sovietico.

 

Nel 1922 il re Vittorio Emanuele III accettò la marcia su Roma (che più che un golpe, fu una vistosa dimostrazione che avrebbe potuto benissimo stroncare) e il fascismo perché l’impopolarità della guerra e il caos sociale provocato dal conflitto avevano reso traballante il prestigio dello stato e della monarchia, ma sempre nella prospettiva di sbarazzarsene appena si fosse presentata l’occasione opportuna.

All’uopo tornava buona l’alleanza della monarchia e della corte con la massoneria e i circoli liberal-massonici internazionali per i quali l’ascesa del fascismo e poi dei fascismi in tutta Europa rappresentava una grave interferenza nel progetto di dominio mondiale liberal-massonico-democratico.

La “svolta” decisiva della politica europea fra le due guerre avvenne un po’ prima della metà degli anni ‘30 con l’ascesa di Hitler in Germania e la guerra d’Etiopia con le tensioni fra l’Italia e i franco-britannici a causa – o con il pretesto – di questa impresa coloniale.

 

Teniamo presente che l’Italia aveva con l’Etiopia un contenzioso che risaliva agli ultimi decenni dell’ottocento, che lo stato del Negus aveva inferto all’Italietta liberale le brucianti sconfitte di Dogali e di Adua. Teniamo presente che Francia e Gran Bretagna dominavano aree enormi del nostro pianeta – la Gran Bretagna da sola quasi un terzo di tutte le terre emerse –; l’indignazione contro l’Italia era pretestuosa e fuori luogo. Non solo: consideriamo che tutte le truppe e i rifornimenti italiani dovevano necessariamente passare per Suez che era controllata dagli Inglesi; se la Gran Bretagna avesse davvero voluto, avrebbe potuto bloccare facilmente l’impresa etiope. No, da parte britannica si voleva che prendessimo l’Etiopia per poterci condannare, buttarci nelle braccia di Hitler e distruggere il fascismo e le ambizioni imperiali italiane nella guerra a venire.

 

Parliamo di uno storico controcorrente, che ha pagato con una lunga serie di processi quello che per la democrazia è il delitto più imperdonabile, quello di dire la verità, Antonino Trizzino, l’autore di Navi e poltrone, Gli amici dei nemici, Settembre nero.

All’inizio di Navi e poltrone, Trizzino segnala una scoperta davvero sorprendente: Un’arma destinata a essere risolutiva nelle battaglie aeronavali, il siluro aereo, fu un’invenzione italiana; nonostante questo, gli alti gradi della nostra marina ne sabotarono la produzione sicché entrammo in guerra quasi del tutto sforniti di essa.

 

Al contrario, un documento dell’Ammiragliato britannico scoperto dallo stesso Trizzino informa che già nel 1938 “quando la guerra con l’Italia era ormai inevitabile” l’Ammiragliato stesso commissionò l’incremento della produzione di aerosiluranti e siluri aerei.

 

La cosa è talmente sorprendente che Trizzino pensa a un errore di data: il 1938 è l’anno dell’accordo di Monaco, quando Inglesi e Francesi mostravano di contare su Mussolini per contenere l’espansionismo di Hitler. E se non si fosse trattato di un errore di data? Se i Britannici avessero già allora avuto il ramoscello d’ulivo in una mano e il pugnale per colpire alla schiena nell’altra?

 

Questo spiegherebbe molte cose. Si pensi ad esempio che negli stessi anni era in corso la guerra civile spagnola (1936-1939) e le simpatie e gli aiuti franco – britannici andarono tutti alla parte “repubblicana” cioè comunista. Possibile che le “democrazie occidentali” sottovalutassero così gravemente il pericolo insito nell’avere due stalinismi tendenti a convergere all’estremità orientale ed a quella occidentale del nostro continente? O lo ritenevano un rischio accettabile nella prospettiva di una imminente “resa dei conti” di vasta portata per eliminare “i fascismi”?

 

Il “casus belli” della seconda guerra mondiale fu la questione di Danzica. Contrariamente a quello che viene spesso raccontato, non si trattò per nulla di un’aggressione proditoria da parte tedesca. Tralasciamo il discorso delle numerose vessazioni cui erano sottoposte le popolazioni dei territori tedeschi passati alla Polonia con il trattato di Versailles, autentiche provocazioni nei confronti della Germania ammesse a denti stretti anche dagli storici ufficiali. Quel che spinse i Polacchi a irrigidirsi sulla questione di Danzica rifiutando ogni mediazione, fu l’assicurazione (mendace) da parte franco – britannica di un intervento tempestivo e massiccio in caso di conflitto con la Germania.

 

Mi pare ci siano pochi dubbi sulla volontà francese e britannica di arrivare alla guerra.

 

Per quanto riguarda l’Italia è ormai definitivamente accertato che il re, la corte, gli alti gradi militari fecero, a quanto pare, pressioni in ogni modo perché l’Italia entrasse nel conflitto. Pare che nel maggio 1940, Vittorio Emanuele, riferendosi a Mussolini, esclamasse: “Cosa aspetta quella testa di legno?”

 

Non va nemmeno sottovalutata la responsabilità degli alti gradi militari – legati alla monarchia – che fecero di tutto per nascondere a Mussolini lo stato di impreparazione e penuria di mezzi del nostro esercito, in modo che egli prendesse la decisione fatale sulla base di dati del tutto falsi. L’Italia, occorre ricordarlo, era appena uscita da due guerre consecutive: quella di Etiopia e quella di Spagna nella quale aveva prodigato con larghezza uomini e mezzi a favore del franchismo, impedendo così l’insediamento di un altro focolaio staliniano nella Penisola Iberica, ma stava per entrare nel più grande conflitto di tutti i tempi con gli arsenali vuoti. Occorre ricordare anche che i Tedeschi, che valutavano correttamente la situazione, non solo non sollecitarono la nostra partecipazione al conflitto, ma la sconsigliarono ritenendo giustamente che l’Italia non sarebbe potuta essere pronta prima del 1942 o del 1943.

 

Fin dal primo giorno, molta parte degli alti gradi militari sabotò la nostra partecipazione al conflitto, diramando ordini assurdi, impiegando i nostri uomini e i nostri mezzi nella peggior maniera possibile, tenendo gli Inglesi puntualmente informati delle nostre mosse e dei nostri punti deboli. Antonino Trizzino ha, a questo riguardo, raccolto una documentazione impressionante, contenuta nei suoi libri Navi e poltrone e soprattutto – il titolo è già molto esplicito – Gli amici dei nemici.

 

Si voleva la sconfitta per far cadere il fascismo, era uno sporco gioco giocato sulla pelle dei nostri soldati e marinai e, molto presto, anche su quella delle popolazioni civili che cominciarono a subire lo stillicidio dei bombardamenti. Per questa strada non si poteva arrivare altro che al secondo voltafaccia, quello dell’8 settembre 1943 – tanto più grave di quello del maggio 1915 in quanto compiuto in piena guerra – che non risparmiò all’Italia nessuna atrocità, che aggiunse orrore a orrore, la tragedia della guerra civile a quella del conflitto, che ci procurò l’umiliazione supplementare al momento della stipula del trattato di pace, di tornare a essere i nemici sconfitti dopo anni di “cobelligeranza”.

 

Indistintamente tutte le nazioni europee, anche quelle schierate in campo antifascista, hanno perso la seconda guerra mondiale, perché l’Europa intera ha perso il suo ruolo planetario per trasformarsi in un condominio russo-americano prima, in una serie di colonie e protettorati USA poi.

 

Oggi la massoneria è sempre un centro di intrighi, di affari poco puliti, di amicizie impresentabili che opera nella buia zona d’ombra dove si sovrappongono politica, affari e criminalità organizzata, con occasionali puntate nella zona della politica “importante” come fu ad esempio in tempi relativamente recenti il caso della loggia P 2, ma la sua importanza è enormemente diminuita rispetto ai tempi precedenti la seconda guerra mondiale, è stata messa da parte, non serve più perché in ultima analisi anch’essa non era/è niente altro che uno strumento.

 

Dopo la seconda guerra mondiale e la caduta dell’Unione Sovietica, il vero potere planetario non ne ha più bisogno perché ormai può mostrarsi (quasi) allo scoperto: il potere dell’aristocrazia del denaro, l’informe moloch che ha oro nelle vene, il cui dominio mondiale creato attraverso la dissoluzione di etnie, popoli e culture in una massa amorfa che è il perfetto mercato, ha oggi preso il nome di globalizzazione, e la “democrazia” è un teatrino recitato a uso dei gonzi per dare alla plebe l’illusione di contare qualcosa. Forse l’unico motivo per cui non si riesce ancora a scorgere il volto di questo potere, è che esso non ha nessun volto umano.

 

In tutto questo, forse, c’è un’unica nota positiva: noi oggi siamo in grado di dissipare il grande equivoco, e sappiamo che fra il senso di appartenenza alla nostra nazione, quel patriottismo del quale proprio non c’è inflazione, che pare sia cosa normale a qualsiasi latitudine tranne che da noi, e la ripulsa, il sentimento di ribellione verso le forze che hanno distrutto la struttura tradizionale delle nazioni europee e le hanno ridotte a colonie degli Stati Uniti, non c’è alcuna contraddizione.

 

Fabio Calabrese

 

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“Paesi Bassi…. ma vegetariani!” In Olanda cento scienziati si esprimono contro il consumo di carne nell’alimentazione umana

Dai Paesi Bassi parte l’appello di cento scienziati che chiedono ai governi di tutto il mondo di prendere dei provvedimenti per ridurre il consumo di carne. Le motivazioni sono molte e valide: riduzione della produzione di gas serra, del consumo di territorio e di quello d’acqua, e migliore trattamento per gli stessi animali. Ma il gruppo di accademici olandesi non si limita a denunciare ciò che non va, propone anche delle soluzioni.

Cento scienziati dei Paesi Bassi hanno chiesto in gruppo l’interruzione degli allevamenti zootecnici di tipo industriale.

Un gruppo di cento scienziati nei Paesi Bassi si è recentemente formato per chiedere l’interruzione degli allevamenti zootecnici di tipo industriale. Ma non si sono limitati a questo, ovviamente. In un documento che esprime i loro comuni intenti, hanno descritto a quali problemi possono portare gli allevamenti di massa e, soprattutto, hanno fornito una serie di soluzioni.

Le richieste, molto importanti, vanno a toccare i principali punti dolenti del sistema economico e produttivo del settore zootecnico, e sono ancora più importanti se si considera che l’agricoltura e gli allevamenti sono la principale causa di emissioni di gas serra e, quindi, dei famigerati cambiamenti climatici, provocandone una quota del 50% superiore a quella dovuta ai mezzi di trasporto esistenti, aerei inclusi.

Il documento redatto dai cento accademici olandesi presenta queste dieci richieste:

1) I governi devono introdurre cambiamenti e non aspettarsi una semplice presa di coscienza da parte dei consumatori, che è di per sé insufficiente. Sono necessari dei governanti che mostrino chiara indipendenza rispetto agli interessi economici in atto.

2) Il consumo dei prodotti animali deve calare almeno del 33% da qui al 2020. Ai governi il compito di informare in modo aperto e incisivo sulle conseguenze di un consumo eccessivo di tali prodotti.

3) Tutti i costi della produzione di carne e latticini devono includere il costo aggiuntivo per la salute pubblica e la distruzione dell’ambiente. Si richiede la disposizione di una nuova tassazione su questi prodotti.

4) Se non si ottiene nessun accordo su scala europea o internazionali, i singoli Paesi dovranno fungere da modello.

5) Alla protezione degli animali deve essere accordato un ruolo centrale, incluso e menzionato all’interno delle Costituzioni e disciplinato da leggi in modo da abolire pratiche crudeli.

6) L’utilizzo di antibiotici o ormoni nella produzione di alimenti deve essere vietata.

7) Si deve sostenere la reintroduzione di cicli chiusi e autosufficienti nella produzione alimentare.

8) L’espansione edilizia e degli allevamenti deve fermarsi. È opportuno introdurre limiti precisi con una soglia massima di capi per ettaro, regione o paese.

9) Ai contadini deve essere data la possibilità di passare alle nuove disposizioni. La politica, come matrice di un modello di sviluppo errato, deve saper accompagnare un nuovo processo orientato alla sostenibilità.

10) Deve essere incentivato lo sviluppo di alimenti sani e gustosi di origine vegetale per facilitare i consumatori nel passaggio ad un’alimentazione povera di carne e non appesantita da troppi latticini.

Dieci punti, quelli elencati sopra, che trattano in sintesi le problematiche più sentite da chiunque abbia a cuore la sostenibilità, che vanno a toccare la salute ed il bene comune, la politica e l’ambiente, addirittura e giustamente associando alla necessità di frenare l’espansione degli allevamenti quella di frenare il consumo di territorio. Per gli autori del documento, infatti, la distruzione del suolo, così come le deforestazioni, la progressiva acidificazione del terreno e l’inquinamento delle le falde acquifere, sono un problema di primaria importanza.

Tra le motivazioni presentate, inoltre, una posizione di spicco è riservata al trattamento che subiscono gli animali ed alla conseguente necessità di una loro protezione, dato che maltrattamenti, mutilazioni e sovralimentazione delle varie specie sono purtroppo all’ordine del giorno, in un sistema in cui “gli animali vengono adattati alle esigenze dell’industria”.

L’argomento più forte di questa richiesta, però, è lo stesso che ha portato ormai moltissime persone a diventare vegetariane, ossia il fatto che la fame del mondo non può essere combattuta nemmeno a parole, quando il 40% della raccolta cerealicola nel mondo viene utilizzato per l’alimentazione animale, e quando in media, come viene scritto nel documento, servono 5 kg di cereali per produrre 1kg di carne.

La produzione di carne richiede poi un enorme quantitativo (e quindi consumo) idrico (una famiglia di tre persone che usa l’acqua in modo parsimonioso per una settimana, chiudendo il rubinetto quando lava i denti ecc., vede infatti vanificato il suo sforzo quando acquista un chilo di carne di manzo).

Inoltre, se si pensa alle previsioni di chi afferma che già nel 2017 il 70% della popolazione mondiale avrà problemi di accesso ad una quantità di acqua potabile sufficiente, forse è meglio agire di conseguenza.

Ci sono mille buoni motivi per diventare vegetariani, quindi, che possono essere di tipo etico, ambientale, salutistico e così via. E ce ne sono altri mille per augurarsi che il documento scritto dai cento scienziati olandesi venga accolto dalle Istituzioni europee o, in alternativa, dai singoli governi.

Perché ognuno di noi può modificare da subito le proprie abitudini, anche in campo alimentare. Ma al cambiamento delle nostre società e delle nostre economie, come viene detto nel primo dei dieci punti sopra riportati, il supporto della politica è indispensabile.

(Sintesi a cura di Andrea Bertaglio)

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Commenti ed esperimenti in chiave  vegetariana

Francesca ha scritto:  Wow non ci posso credere! E’ già il quarto giorno che non mangio carne uova e formaggio! Questa prova mi ha fatto molto bene. Ci sono molti siti in internet per trovare ricette vegane gustose.

http://www.simpleveganrecipes.co.uk/

http://www.ivu.org/italian/recipes/

penso che organizzare delle cene e invitare amici sia un buon modo per diffondere nuovi stili di vita che non danneggino l’ambiente gli animali e le popolazioni dei paesi a rischio di carestie.

La gravità della situazione purtroppo mi fa pensare che siano necessari radicali cambiamenti e vorrei che le persone lo capissero in tempo.

Io vivo in Inghilterra e ho finito il primo anno di Scienze Ambientali all’università. Mi tengo il più possibile informata grazie alla BBC che trasmette sia per radio che per televisione un’informazione che ritengo molto utile per avere uno sguardo d’insieme sulle problematiche attuali. Leggo molto anche i giornali tramite internet.

In un mondo così complesso e che cambia velocemente credo che sia mio dovere cercare di sapere di più e informare le persone di quello che so e sono molto contenta quando gli altri trasmettono la loro conoscenza. Vorrei segnalare anche questo sito che diffonde interventi di persone che propongono le loro idee e soluzioni in diversi ambiti, completamente gratis nella forma di video http://www.ted.com/

Quest’anno mi occuperò di design per ecovillaggi e farò nuove esperienze interessanti con persone che vogliono fare qualcosa di concreto, questo mi fa svegliare alla mattina piena di entusiasmo. Se qualcuno sta facendo la stessa esperienza sono felice di scambiare informazioni e consigli. Ciao!

 

Ciro Aurigemma ha scritto:

E’ estremamente utile alla causa vegetariana divulgare queste informazioni, ciao a tutti… www.draurigemma.it

 

Altri articoli sulla dieta vegetariana:

http://www.circolovegetarianocalcata.it/category/alimentazione-vegetariana/

 

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“Malattie degenerative e acqua di medicina di René Caisse” – Quando la fantasia e la realtà si uniscono…

La storia incredibile, ma vera, di René Caisse comincia in Canada nella regione dell’Ontario nel 1922.

 

René era capo infermiera in un ospedale e fra i malati della

sua corsia noto una signora con un seno stranamente deformato.

Incuriosita, le domandò cosa fosse accaduto. La signora raccontò che

vent’anni prima un uomo di medicina degli indiani Objiwa, saputola

malata di cancro al seno, le aveva fatto bere per un lungo periodo un

the di erbe che l’aveva guarita. L’indiano aveva definito questa

miscela di erbe e radici:

 

“Una bevanda benedetta che purifica il corpo e lo riporta in armonia

col grande spirito”

 

René fece tesoro dell’informazione e prese nota della ricetta. due

anni dopo ebbe modo di sperimentarla su sua zia, malata terminale di

cancro allo stomaco e al fegato. La zia guarì.

René capì di essere di fronte ad una scoperta fantastica e in

collaborazione col dott. Fisher, il medico della zia che aveva

assistito al processo di guarigione, cominciò ad usare la bevanda su

altri malati terminali di cancro. I successi si ripetevano. In quei

tempi si pensava di aumentare l’efficacia di un rimedio se lo si fosse

inoculato per via intramuscolare e così René cominciò ad iniettare la

tisana, ma gli effetti collaterali erano troppo spiacevoli. Negli anni

a venire, dopo studi di laboratorio condotti su topi, fu individuata

l’erba iniettabile e le altre venivano fatte bere in infuso.

I risultati positivi continuarono. Bisogna sottolineare il fatto che

René mai richiese un compenso dai suoi pazienti, accettando solo le

loro offerte spontanee.

 

La voce si sparse ed altri otto dottori dell’Ontario cominciarono ad

inviarle pazienti giudicati senza speranza. Dopo i primi risultati i

medici scrissero una petizione al Ministero della sanità Canadese

chiedendo che si prendesse in seria considerazione la cura. L’unico

risultato che ottennero fu l’invio di due commissari col potere di

arresto immediato nei confronti di René. I due pero rimasero colpiti

dal fatto che nove dei migliori medici di Toronto collaborassero con

la donna e invitarono René a sperimentare su topi la sua medicina.

Ella tenne in vita per 52 giorni topi inoculati con il sarcoma di

Rous.

 

Tutto tornò come prima, René continuò a somministrare la bevanda in un

appartamento di Toronto .In seguito dovette spostarsi a Peterborough

in Ontario, dove la raggiunse un ordine di arresto recato da un

poliziotto. Ancora una volta ebbe fortuna perchè il poliziotto, dopo

aver letto le lettere che i suoi pazienti le avevano scritto in segno

di riconoscenza, decise che era il caso di parlare della cosa al suo

capo. Dopo questo episodio René ebbe il permesso del ministero di

continuare a lavorare solo su quei pazienti che recassero una diagnosi

scritta di cancro redatta da un medico.

 

Nel 1932 uscì, su un giornale di Toronto, un articolo intitolato:

“Infermiera di Bracebridge fa una importante scoperta per il cancro”.

A questo articolo seguirono innumerevoli richieste di aiuto da parte

di malati di cancro e la prima offerta commerciale.

L’offerta era davvero vantaggiosa ma le si richiedeva di svelare la

formula in cambio di una somma considerevole e un vitalizio. René

rifiutò categoricamente, giustificò la sua decisione col fatto che non

voleva che si speculasse sul suo rimedio.

Nel 1933 il comune di Bracebridge le mise a disposizione un Hotel,

sequestrato per ragioni di tasse, perchè potesse farne una clinica per

i suoi malati.

Da allora e per i successivi otto anni, un cartello sulla porta

avrebbe indicato “CLINICA PER LA CURA DEL CANCRO”.

Dal giorno dell’apertura centinaia di persone erano convenute alla

clinica e ,alla presenza di un medico, si facevano fare l’iniezione e

bevevano la tisana.

 

La clinica diventò in breve una sorta di Lourdes Canadese.

Nello stesso anno si ammalò la madre di René ,cancro al fegato

inoperabile. René le somministrò la sua cura ed ella guarì nonostante

che i medici le avessero predetto una sopravvivenza di pochi giorni.

Fu in questi anni che il dottor Banting, uno dei partecipanti alla

scoperta dell’insulina, affermò che il the aveva il potere di

stimolare il pancreas fino a riportarlo alle sue normali funzioni,

curando così i malati di diabete. Il dott. Banting invitò

ufficialmente la signora Cassie a fare esperimenti presso il suo

istituto di ricerca, ma lei per paura di dover abbandonare i propri

malati, rifiutò. Era il 1936.

 

Nel 1937 accadde un incidente. Una donna in fin di vita fu trasportata

all’ospedale di René, sofferente per frequenti embolie, subito dopo

l’iniezione, morì. Fu un’occasione d’oro per i detrattori di René, fu

fatto un processo ed i risultati dell’autopsia dimostrarono che la

donna era morta per un embolo.

La pubblicità che il caso scatenò portò ancora più malati in cerca di

speranza all’ospedale di Bracebridge.

Lo stesso anno furono raccolte 17.000 firme che invitavano il governo

a riconoscere il the come farmaco per il cancro.

Una ditta farmaceutica Americana offrì un milione di dollari (del

1937!) per la formula ennesimo rifiuto di René. Nel frattempo un

medico americano, il dott. Wolfer, offrì a René di effettuare

esperimenti con la bevanda su trenta pazienti del suo ospedale. René

fece la spola fra il Canada e gli USA per molti mesi, i risultati che

ella ottenne spinsero il dott. Wolfer ad offrirle uno spazio di

ricerca permanente nei suoi laboratori. Ancora una volta René rinunciò

ad una vantaggiosa offerta che l’avrebbe però costretta ad abbandonare

i suoi malati in Canada.

 

Di quel periodo abbiamo la testimonianza del dott. Benjamin Leslie

Guyatt responsabile del dipartimento di anatomia dell’Università di

Toronto che aveva ripetutamente visitato la clinica: “Ho potuto

constatare che nella maggior parte dei casi le deformazioni

scomparivano, i pazienti denunciavano una forte diminuzione dei

dolori. In casi serissimi di cancro ho visto interrompersi le

emorragie più gravi. Ulcere aperte alle labbra ed al seno rispondevano

al/e cure. Ho visto scomparire cancri alla vescica ,al retto, al collo

dell’utero allo stomaco. Posso testimoniare che la bevanda riporta la

salute nel malato, distruggendo il tumore e restituendo la voglia di

vivere e le funzioni normali degli organi.”

La dottoressa Emma Carlson era arrivata dalla California per visitare

la clinica, questa la sua testimonianza:

“Ero venuta ,abbastanza scettica, ed ero risoluta a rimanere solo 24

ore. Sono rimasta 24 giorni ed ho potuto assistere a miglioramenti

incredibili su malati terminali senza più speranza e malati

diagnosticati terminali, guarire. Ho esaminato i risultati ottenuti su

400 pazienti.”

 

Nel 1938 un’altra petizione a favore di René raccolse 55.000 firme. Un

politico canadese fece la sua campagna elettorale promettendo che

avrebbe permesso che la signora Caisse potesse esercitare la

professione medica senza laurea e “Praticare la medicina e curare il

cancro in tutte le sue forme e le relative indisposizioni e difficoltà

che questa malattia comporta.”

La risposta della classe medica fu immediata, il nuovo ministro della

sanità, il dott. Kirby istituì la “Royal cancer Commission” il cui

scopo era quello di appurare la efficacia di discusse terapie per il

cancro. Una delle condizioni inderogabili perchè una medicina potesse

essere legalizzata come cura per il cancro era che la sua formula

venisse consegnata a priori nelle mani della commissione. La pena per

la mancata consegna era una multa la prima volta per pratica abusiva

della professione medica e l’arresto in caso di recidiva.

René Cassie non aveva mai voluto svelare la formula e la commissione

oltretutto non aveva obbligo di riservatezza riguardo alle formule

presentate.

Le due proposte di legge, quella a favore di René e quella che

istituiva la commissione per il cancro, furono discusse lo stesso

giorno al parlamento Canadese.

La legge Kirby fu approvata e quella pro-René respinta per soli tre

voti. La clinica di René era in pericolo, i medici cominciarono a

rifiutarsi di consegnare ai propri pazienti i certificati attestanti

il cancro.

Una valanga di lettere di protesta raggiunsero il ministero della

sanità, gli ex malati curati da René e quelli che volevano farsi

curare si ribellarono. Il ministro ritenne saggio che la clinica

continuasse ad esistere fino al momento in cui la signora Caisse si

sarebbe presentata di fronte alla commissione per il cancro.

Nel marzo 1939 iniziarono le udienze della commissione per il cancro

istituita dalla legge Kirby. René fu costretta ad affittare la sala da

ballo di un Hotel di Toronto per accogliere i 387 ex pazienti che

avevano accettato di testimoniare in suo favore. Tutte queste persone

si dichiaravano convinti che René li aveva guariti o che la bevanda

aveva arrestato il cammino devastante del cancro. Tutti erano stati

definiti “senza speranza” dai loro medici prima di sottoporsi alle

cure dell’ospedale di Bracebridge. Solo 49 dei 387 ex malati furono

ammessi a testimoniare. Medici illustri testimoniarono a favore di

René.

 

Molti casi furono stralciati perché le diagnosi furono giudicate

sbagliate e vi furono anche dottori che firmarono dichiarazioni in cui

riconoscevano l’errore. Alla fine il rapporto della commissione fu

che:

 

* Nei casi diagnosticati con biopsia si contava una guarigione e

due miglioramenti

* Nei casi diagnosticati con raggi x, una guarigione e due miglioramenti

* Nei casi diagnosticati clinicamente due guarigioni e quattro miglioramenti

* Su dieci diagnosi “incerte”, tre erano sicuramente sbagliate e

quattro non definitive.

* Undici diagnosi erano definite “corrette”, ma la guarigione

veniva attribuita a precedente radioterapia.

 

Insomma la conclusione era che la bevanda non era una cura per il

cancro e che se la signora Cassie non avesse svelato la formula, la

legge Kirby sarebbe stata applicata e la clinica chiusa.

René, sfidando la legge, tenne aperta la clinica ancora per tre anni

in una situazione di semi-clandestinità.

Nel 1942, la clinica venne chiusa René era sull’orlo di una crisi di

nervi. Si trasferì a North Bay ,e là rimase fino al 1948 anno in cui

suo marito morì. Si presume che continuasse ad aiutare qualche malato

che riusciva a raggiungerla, ma non nella misura che la clinica le

aveva permesso.

 

Il Grande Ritorno

Nel 1959 la grande rivista americana “True” pubblicò un articolo su

René Caisse e il suo rimedio per il cancro. L’articolo era frutto di

mesi e mesi di indagini, interviste e raccolta di materiali.

L’articolo fu letto da un eminente medico americano il dott. Charles

Brush, titolare del Brush Medical Center di Cambridge.

Il dott. Brush, dopo averla incontrata le propose di andare a lavorare

presso il suo istituto. Quello che le chiedeva era di applicare la

medicina su malati di cancro, testare la formula in laboratorio per

eventuali modifiche e migliorie e, quando si fosse assolutamente

sicuri dell’efficienza, fondare un associazione il cui scopo sarebbe

stato quello di diffonderla nel mondo intero ad un prezzo accessibile.

Non le si chiedeva di svelare la formula ma di usarla su persone

malate di cancro. Per René era il massimo dei suoi desideri, accettò.

René aveva settant’anni.

Prima di continuare il racconto cerchiamo di capire chi era il dott.

Brush. Il dott. Brush era ed è tuttora uno dei medici più rispettati

degli Stati Uniti.

E’ stato il medico personale del presidente J.F. Kennedy e suo amico fidato.

Il suo interesse per la medicina naturale ed i rimedi delle scuole di

medicina asiatiche risale a molti anni prima il suo incontro con René.

Il Brush Medical Center è uno degli ospedali più grandi degli USA ed è

stato il primo ad usare l’agopuntura come metodo di cura, il primo a

dare importanza al fattore alimentare nella cura del paziente ed il

primo istituto medico americano a istituire un programma di assistenza

gratuita per malati indigenti.

René cominciò a lavorare nella clinica del dottor Brush nel Maggio del 1959.

Dopo tre mesi il dott. Brush ed il suo assistente dott. Mc Clure

redassero il primo rapporto:

 

“Tutti i pazienti sottoposti alla cura accusano una riduzione dei

dolori e della massa cancerosa con un evidente incremento del peso e

delle condizioni cliniche generali. Non possiamo ancora dire che sia

una cura per il cancro ma possiamo tranquillamente affermare che è

salutare e assolutamente atossica”

 

Il dottor Brush, in collaborazione col suo amico Elmer Grove, un

espertissimo erborista, arrivò a perfezionare la formula fino al punto

che essa non dovette mai più essere iniettata. Aggiungendo altre erbe

alla formula originale, erbe che definirono “potenziatori”, la

medicina poteva essere assunta per via orale solamente.

Finalmente si apriva la possibilità che ognuno potesse assumere la

medicina comodamente a casa propria, evitando viaggi e fatiche spesso

insopportabili per malati gravi.

Il dott. Mc Clure inviò dei questionari agli ex pazienti di René per

verificare la durata di vita dopo la guarigione, le risposte che

ricevette confermavano le parole di René: “La bevanda degli indiani

CURA IL CANCRO”.

Ecco un breve elenco:

 

Norma Thompson curata 20 anni prima nessuna ricaduta

Clara Thornbury curata 22 anni prima nessuna ricaduta

DH Laundry curato 12 anni prima nessuna ricaduta

Nellie Mc Vittie curata 23 anni prima nessuna ricaduta

Wilson Hammer curato 31 anni prima nessuna ricaduta

John McNee curato 30 anni prima nessuna ricaduta

Jack Finley curato 20 anni prima nessuna ricaduta

Lizzle Ward curata 14 anni prima nessuna ricaduta

 

Accadde però che nuove difficoltà impedissero a René di continuare a

lavorare col dott. Brush.

I laboratori che fornivano le cavie per gli esperimenti interruppero

la fornitura e il dott. Brush fu invitato dalla “American Medical

Association” a non usare metodi che uscissero dai binari

dell’ortodossia.

René tornò così a Bracebridge per evitare altre battaglie legali.

Il dott. Brush continuò i suoi esperimenti su uomini ed animali e nel

1984 dette la massima fiducia alla bevanda.

Ammalatosi di cancro all’intestino, si curò solo con essa e guarì.

René rimase a Bracebridge dal 1962 al 1978 continuando a rifornire il

Dott. Brush con la medicina di erbe, lui la teneva informata dei

progressi delle sue ricerche e dell’efficacia che riscontrava su altre

malattie degenerative.

 

René, alla veneranda età di 89 anni tornò alla ribalta.

Nel 1977 il periodico” Homemakers” pubblicò la storia della bevanda e

di René. L’articolo ebbe l’effetto di una bomba atomica sull’opinione

pubblica canadese. Presto la sua casa fu assalita dalle persone che

chiedevano la bevanda ed essa fu costretta a richiedere l’aiuto della

polizia per poter uscire di casa.

Fra i molti che lessero l’articolo vi era anche David Fingard, un

chimico in pensione titolare di una azienda farmaceutica la

“Resperin”.

Fingard si domandò come fosse possibile che la formula di una sostanza

così efficace avesse potuto rimanere nelle mani di una vecchietta per

tutti questi anni.

Decise che lui si sarebbe inpossessato della formula.

Non si scoraggiò ai primi rifiuti e finalmente trovò la chiave per

aprire il forziere nel cuore di René. Promise che avrebbe aperto

cinque cliniche in Canada, aperte a tutti, poveri compresi, e che per

queste aveva già trovato i finanziamenti da una grande azienda

mineraria canadese. Il 26 Ottobre 1977 René consegnò la formula della

bevanda nelle mani del signor Fingard. Il dott. Brush era presente

solo nella veste di testimone. Il contratto prevedeva ,in caso di

commercializzazione, un ricavo del 2% a favore di René.

Nei giorni seguenti la Resperin chiese ed ottenne dal ministero per la

salute ed il benessere, pressato dall’opinione pubblica, il permesso

di testare la bevanda in un programma pilota su malati terminali di

cancro.

Due ospedali e molte decine di medici avrebbero partecipato al

programma di sperimentazione clinica, usando la bevanda fornita dalla

Resperin che si impegnava a seguire tutte le norme sanitarie vigenti.

L’opinione pubblica Canadese era entusiasta. René percepiva pochi

dollari con i quali doveva anche fornire le erbe alla Resperin. Presto

i due ospedali dissero che desideravano cambiare gli accordi e che

avrebbero abbinato alla bevanda le terapie tradizionali (chemio e

radio-terapia).

Fu deciso di continuare il programma solo con i medici di base.

Nel frattempo René Caisse moriva .

Ai suoi funerali erano presenti centinaia di persone provenienti da ogni dove.

 

Il governo Canadese interruppe gli esperimenti della Resperin

giudicandoli inutili perchè mal eseguiti.

La Resperin infatti non era quella grande azienda che il suo titolare

aveva fatto credere a René.

Il dott. Brush. insospettito dalla mancanza di informazioni, aveva

svolto delle indagini sull’azienda. Quello che ne risultò era che la

Resperin era formata da due settantenni di cui uno era Fingard e

l’altro un ex ministro di un precedente governo, il dott. Mattew

Dyamond.

Dyamond con l’aiuto della moglie preparava l’infuso nella cucina di

casa. Le forniture ai medici di base erano spesso in ritardo o

insufficienti o malfatte. Inoltre la totale mancanza di coordinazione

del programma aveva, reso impossibile un accurato controllo sui medici

coinvolti.

In una circolare interna, il ministero giudicava così gli esperimenti

clinici con la bevanda: “Non sono valutabili i casi clinici raccolti”.

Nei documenti ufficiali la bevanda, fu dichiarata però: “non efficace

nella cura del cancro”. Fu anche riconosciuta la sua assoluta

atossicità. Sotto la pressione delle proteste da parte dei malati, fu

immessa in un programma di distribuzione di medicine speciali, a

malati terminali, per motivi compassionevoli. (Nello stesso programma

era anche 1′AZT farmaco per l’AIDS, che fu poi legalizzato nel 1989)

I malati avrebbero potuto d’ora innanzi ottenere la bevanda dietro

presentazione di una serie di domande ufficiali di non facile

compilazione.

La bevanda ,col nome ufficiale con cui era conosciuta in Canada non

avrebbe mai potuto essere venduta come medicina.

Il dott. Brush era disgustato dalla vicenda, unico possessore della

formula migliorata, decise che avrebbe aspettato migliore occasione

per diffondere questa conoscenza. Continuò nel suo ospedale ad usare

la bevanda che nel 1984 lo guarì dal cancro all’intestino.

 

Elaine Alexander

Nel 1584 entra in scena, il personaggio che avrebbe dato una svolta

alla nostra storia. Elaine Alexander una giornalista radiofonica che

aveva dato vita ad interessanti e seguitissimi programmi alla radio

riguardanti le medicine naturali e approfondimenti sulla allora nuova

malattia, l’AIDS.

 

Elaine telefono al dott. Brush, gli dimostrò che era informatissima

sulla storia di René e della bevanda e gli chiese se fosse disposto a

farsi intervistare nel corso di un programma che si sarebbe chiamato

“STAYN’ ALIVE”.

Il dott. Brush per la prima volta rilasciò una dichiarazione pubblica

sulla medicina:

Elaine: “Dott. Brush e vero che lei ha studiato gli effetti della

bevanda su malati di cancro ricoverati presso la sua clinica?”

Brush: “E’ vero.”

E.: “I risultati che ha ottenuto si possono definire significativi o

dei semplici” aneddoti”, come afferma qualche suo collega?”

B.: “Molto significativi.”

E.: “Ha riscontrato nella cura degli effetti collaterali?”

B.: “Nessuno.”

E.: “Dott. Brush la prego di arrivare al punto, lei afferma che la

bevanda può aiutare le persone affette da cancro oppure che è una cura

per il cancro?”

B.: “Posso affermare che è una cura per il cancro.”

E.: “Può ripeterlo per favore?”

B.: “Certo, con molto piacere, la bevanda è una cura per il cancro. Ho

potuto constatare che può far regredire il cancro ad un punto tale che

nessuna conoscenza medica attuale è in grado di raggiungere.”

 

Le parole del dott. Brush scatenarono una ondata di telefonate,

l’uscita della stazione radiofonica fu circondata dalle persone che

non avevano potuto accedere alla linea telefonica.

Elaine cominciava a capire quanto frustrante fosse non poter aiutare

chi chiede aiuto.

Nei due anni che seguirono Elaine mise in onda sette programmi di due

ore ciascuno solo sulla bevanda. Il dott. Brush vi partecipò per

quattro volte ancora, numerosi medici, paramedici ed ex malati furono

intervistati. Tutti confermarono quanto detto dal dott. Brush.

‘La bevanda è una cura, per il cancro”

Elaine era così pressata dalle richieste di aiuto che si adoperò

perchè alcuni dei malati fossero inseriti nel programma caritatevole

del Governo. Ma la strada era tanto difficile e complicata che solo

pochi vi potevano accedere.

Elaine passò tre anni terribili pressata da migliaia di richieste di

aiuto, non poteva distribuire la tisana.

Il programma del governo era così lento nel concedere i permessi che

spesso le persone morivano prima di potervi accedere.

Finalmente le venne l’idea luminosa.

Pensò: “Perchè continuare a combattere con le istituzioni per far

riconoscere la medicina come una “vera” cura per il cancro? Non era

forse questa un semplice the di erbe? Una tisana innocua ed atossica?

Bene si sarebbe venduta come tale. Senza attribuirle nessun merito per

la cura del cancro ne per altre malattie. Sarebbe stata venduta nelle

erboristerie (che in America e Canada si chiamano “negozi della

salute”). La voce si sarebbe presto diffusa tra i malati di cancro.

Illustrò il suo progetto al dott. Brush che ne rimase entusiasta. Egli

capì che questa era la chiave per rendere la tisana accessibile a

tutti.

Decisero insieme di cercare la ditta giusta che potesse garantire un

prezzo onesto, una meticolosa, preparazione della formula, un

controllo sulla qualità delle erbe utilizzate e la capacità di far

fronte alle richieste enormi che sarebbero seguite di lì a qualche

anno.

Ci misero sei anni, scartando e selezionando decine di aziende.

Finalmente nel 1992 la bevanda era in vendita prima in Canada, poi

negli USA. Nel 1995 Ha fatto la sua prima comparsa in Europa.

Dal Luglio 1996 si trova anche in Italia.

Elaine Alexander è morta nel maggio 1996.

Questa avvincente storia continua.

 

Forse queste poche pagine potranno salvare la vostra vita o quella di

qualcuno che vi sta molto a cuore, fotocopiatele e diffondetele, è

l’unico mezzo pubblicitario che la bevanda dispone. Date il nome della

bevanda ma scrivetelo su altra pagina.

 

Settembre 1996

 

MALATTIE E DISORDINI IN CUI LA TISANA HA DIMOSTRATO DI ESSERE EFFICACE

 

IPOGLICEMIA

SCLEROSI MULTIPLA

MORBO DI PARKINSON

ARTRITI

SINDROME DA AFFATICAMENTO CRONICO

ULCERA

PROBLEMI ALLA TIROIDE

FIBROMATOSI

EMORROIDI

PROBLEMI URINARI E ALLA PROSTATA

PROBLEMI DI CIRCOLAZIONE

DIABETE, (RISTABILISCE LE NORMALI FUNZIONI DEL PANCREAS)

TUMORI

INSONNIA

PSORIASI

IMPOTENZA SESSUALE

MORBO DI ALZHEIMER

ASMA E ALLERGIE

 

INOLTRE:

 

1. E un sedativo naturale quindi agisce sul sistema nervoso

calmando la persona.

2. Attenua i dolori o addirittura li elimina anche nei casi più gravi.

3. Arresta le emorragie agendo come ricostituente del sangue.

4. Previene e corregge la costipazione.

5. Fa ritornare il senso del gusto.

6. Aiuta la digestione.

7. E’ efficace per l’insonnia.

8. Rinforza il sistema immunitario.

9. E’ un ottimo tonico profilattico.

10. Aiuta a guarire dalle ustioni intestinali provocate dalla radioterapia.

11. Lenisce e previene gli effetti da avvelenamento causato da

alluminio, piombo e mercurio.

12. Riduce i depositi di metallo pesante nei tessuti, in particolare

quelli che circondano le giunture.

13. Protegge il cervello dalle tossine che lo attaccano.

14. Dà un senso diffuso di benessere al corpo.

15. Riduce il volume delle masse nodulari

 

Autore anonimo, tratto probabilmente dal libro “Essiac Project”.

Due links molto interessanti in inglese:

 

http://www.essiac4wellbeing.com/ESSIAC/Hail_René/hail_René.html

 

http://www.octagonalhouse.com/René_Caisse_Room/René_caisse_room.htm

 

Ciro Aurigemma

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