Archivio della Categoria 'Poems and Reflections'

Analisi di “coscienza” – Riflessioni sulla consapevolezza di sé nel mondo

La coscienza non può essere spiegata solo in termini di funzionamento fisiologico e sicuramente possiede una sua propria natura e realtà. L’osservato non è mai scisso dall’osservatore, l’immagine non può sostituirsi alla sostanza. L’individuazione mentale delle forme e dei nomi non basta a completare il quadro della vita dandogli un’interezza. Perciò alla ricerca di una matrice comune, a se stante ed allo stesso tempo onnicomprensiva, mi sono interrogato ed ho indagato sulla natura di colui che si interroga. Ho chiamato questo riflettere sulla riflessione: Spiritualità Laica.

Il mio percorso verso la realizzazione dell’unitarietà della vita è iniziato nel 1973, durante una profonda esperienza “spirituale” ottenuta alla presenza del mio Maestro Swami Muktananda. Da quel momento imparai a riconoscere l’ambiente, le persone, tutto ciò che si manifesta nel mondo, come una proiezione della stessa coscienza. Coscienza e materia non sono separati. In considerazione di ciò la mia vita assunse nuovo significato e non vedendo divisione fra l’io e l’altro anche il mio agire si uniformò a questa consapevolezza. Tutto si manifesta in ogni singola parte e ogni parte compartecipa al tutto.

In seguito trovai che questa percezione aveva una somiglianza anche con le descrizioni del sentire bioregionale e dell’ecologia profonda. Mettere in pratica questo sentire olistico è lo spontaneo risultato di quella esperienza iniziale, ma non è un sentiero tracciato, è essenzialmente una capacità di rispondere alle diverse situazioni nel modo più adeguato senza dover ricorrere al costruito basato sulla memoria. Non che la memoria diventi inutile o dannosa, anzi acquista nuovo significato in considerazione dell’arricchimento che essa ne riceve ad ogni nuova esperienza, senza dover sottostare all’obbligo di una corresponsione con esperienze precedenti, in modo che non sia una trappola nella quale restare invischiati. Il riciclaggio della memoria è la capacità di recuperare in altre forme quei modi che servirono alla soddisfazione di altre e diverse esperienze e situazioni. Non quindi memoria nella ripetitività del discorso ma nell’accrescimento della capacità di risposta. Inutile cercare di dare dettagliate spiegazioni.. si potrebbe solo definire: capacità di crescita.

Paolo D’Arpini

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Poesia in “costume” – Fischi fasci fiaschi

IL BANCO DEI FISCHI

TEATRO MONTECITORIO
PRIMO SEGNAL LITTORIO.
FISCHIATO PRIMATTORE
SCENDE, SUGGERITORE.

NON ERA CAGARELLA, E’ DIARREA
SE COMANDA CHI E’ NELLA CAVEA.

COSI’ VENTI MILIONI
TRATTATI DA “COGLIONI”.
SE UNO HA QUESTO TARLO
PRESTO VORRA’ RIFARLO.

MASCHERE

“VEDRETE, PRESTO MOSTRERA’ GLI ARTIGLI”(scrissero giornalon del SI)
per scelta dei ministri usò stampigli.
Ventiquattrore vi è sembrato bello?
Inversion di color col mottarello.

IL MONTE DEI FIASCHI

Imprenditor fallito? (senza colpe)
Nessuno mosse dito
ed è successo anche
per colpa delle banche.

Giusto quindi un cazzo
governo salvi i Paschi.
Ognor vi fu intrallazzo
controlli furon laschi.

Danaro per gli “amici”
che spesero felici.
D.S. o del PiDi
ricchi si fecer lì (restituiscano il maltolto!)

Copiaron in Etruria (per falsi e per Boschi)
per loro fu goduria (gli amministratori).
Paghino i condottieri,
stipendi a sette zeri!

Banchier con maglia nera
giammai provò galera.
Perché non muta legge
se situazion non regge?

Finanziano i partiti,
perciò son riveriti.
Ancor ministro Boschi?
Continua affari loschi.

ALL’AMICA RISANATA

Amica cara, hai vinto col quaranta!!
Tua gioia di pagar sarà cotanta.
Per consolar il mio imprevisto smacco
ti spiace se prenoto già da Cracco?

Luigi Caroli

Nota: riferimento a C’E’ POSTA PER VOI del 5 dicembre

SENTIRANNO POPOLO CHE URLA
CHE’ NON SOPPORTA STO GOVERNO BURLA.

Philosophus Sibyllinus

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La meditazione Ch’an (o Zen) non offre poteri miracolosi

Se una qualunque persona volesse farvi credere di dover praticare la meditazione per ottenere un certo potere e per riuscire a cambiare le cose che vanno male nella vostra vita, sicuramente voi vi attacchereste a questa convinzione. Ebbene, sì, con una pratica meditativa mirata voi potreste anche riuscire ad ottenere un occasionale e temporaneo cambiamento dei vostri problemi. Ma, se intendete farlo con questo unico scopo, non sarete in grado di modificare il soggetto che soffrirà ancora, alla prossima occasione. Ecco perché il Ch’an non offre un metodo per cambiare i vostri problemi, né vi promette “quel tipo” di poteri, bensì vi offre lo strumento per cambiare voi stessi! Perché modificando l’innata idea di un soggetto egoico, anziché promettere di regalarvi il potere per eliminare i problemi e le sofferenze, fa diventare VOI il VERO POTERE!

In questo modo sarete voi stessi in grado di trovare l’antidoto ai vostri problemi e, successivamente, anche a tutti gli altri che potrebbero presentarsi quando avrete finito la cura meditativa. Il Ch’an insegna a rendere mansueto l’Ego, a conoscerlo, ad educarlo ed a ridimensionarlo. Quando sarete maestri nell’arte di dominare il vostro Io, non sarete più con le spalle al muro: sarà la vostra Coscienza che avrà messo nell’angolo quell’Io che vi provoca tanti problemi. La Coscienza profonda farà sentire la sua voce ancor più forte di quella dell’Io, permettendovi di avere forza e volontà a sufficienza per dominare gli istinti irrefrenabili della mente egoica protesa a salvaguardare la sua entità individuale.

Parliamo un attimo delle paure ancestrali che questa nostra entità individuale si porta dietro da infinite rinascite. L’Io non è sempre lo stesso, tanto è vero che noi non siamo mai la stessa persona delle vite precedenti. Però, l’energia difensiva dell’Io e la caratteristica volontà di conservare la sua spiccata individualità sono sempre le stesse. Esse sono le naturali conseguenze tendenziali di ciò che ognuno di noi alimenta e sperimenta durante la sua attuale vita. Le paure della sofferenza e della morte vengono trascinate con sé dall’Io vita dopo vita: esse sono infatti come una memoria storica che, all’atto di una nuova rinascita, fissa e stabilisce in noi le paure derivate dall’esperienza precedente.

La sofferenza è il male profondo dell’animo umano, ed è la conseguenza della convinzione di una illusoria esistenza separata e individuale. Non è assolutamente possibile sfuggirle, almeno non con la mente ignorante che gli esseri viventi si ritrovano karmicamente. Purtroppo, l’unico antidoto effettivo alla sofferenza è l’emancipazione coscienziale della mente, la conoscenza metafisica della vera Realtà dei fenomeni. E questa, non è un farmaco che può essere assunto subito e da tutti, proprio perché una delle prerogative della sofferenza, strettamente derivata dall’Ignoranza avidyà, è quella di rifiutare e far respingere dalla mente comune i profondi insegnamenti trascendenti della Conoscenza della Verità.

C’è anche da chiarire un altro punto importante, sul tema della sofferenza: molti praticanti di vecchia data, avendo ascoltato gli insegnamenti Buddisti, ritengono che la vera eliminazione della sofferenza nella mente passi attraverso la pratica della Compassione, cioè il desiderio di non vedere più soffrire gli altri esseri viventi. Per cui la propria sofferenza viene fatta passare in secondo piano, con l’applicazione di apposite pratiche, quali lo sviluppo di una mente tollerante e paziente che riesca a comprendere la Vacuità, la legge dell’impermanenza dei fenomeni. Questa mente colma di Saggezza che si dedica alla pazienza ed alla sopportazione dei difetti di sé e del mondo, in Sanscrito è chiamata anupattika-dharmakshanti e, solitamente, una volta che si è manifestata, determina la prova testimoniale della raggiunta Illuminazione.

Però, benché la propria sofferenza passi in secondo piano, per il processo liberato-rio è importante anche attivarsi per promuovere l’eliminazione della sofferenza tout-court, nostra ed altrui. La visione del “Bodhisattva” che si dedica alla cura della liberazione degli altri esseri, al fine di eliminare la loro sofferenza, è sempre accompagnata da uno sviluppo mentale in grado di conoscere le varie leggi del karma e di causa-effetto. Pur essendo innegabilmente vero che non si potrà raggiungere l’Illuminazione se nel nostro cuore non si è impiantato il seme della Karuna (la profonda Compassione), nel Ch’an le cose vengono viste in un modo più pratico. Esso riconosce comunque, che il fine ultimo del Bodhisattva è quello di sacrificare la sua personale fruizione del Nirvana, a scapito di un’intensa attività salvatrice nei confronti degli esseri ignoranti. Ma l’aspirante non potrà far nulla per nessun altro se prima egli stesso non ha appreso il metodo per eliminare la propria sofferenza.

Per risolvere questo iniziale problema, il Ch’an sposta il piano di livello della mente dei meditanti da quello del mondo fenomenico a quello esistenziale-metafisico. Se Io non esistessi, potrei forse avere esperienza della sofferenza mia o altrui? Certamente no. Cos’è che attiva la mia sofferenza e la mia coscienza della sofferenza altrui? La risposta, inevitabile, è che colui che sperimenta la sofferenza VUOLE esistere sul piano della mente fenomenica. Cioè, egli crede di esistere soltanto su questo piano manifesto e credendo a questa realtà illusoria, vi sperimenta la sofferenza. Perciò, se si giunge alla mente della Vacuità, in cui tutto quanto ci circonda, compresi noi stessi, viene visto come apparente e illusorio, dove mai potrà allignare e attecchire l’idea della sofferenza? Ecco perché il Ch’an, anziché lavorare materialmente per eliminare la sofferenza propria ed altrui in maniera dualistica (come avviene nelle Religioni teistiche), va direttamente all’origine del problema della sofferenza.

Esso ci spinge ad indagare a fondo nella mente, in quanto è la nostra mente karmica che conserva e prolunga nel tempo l’idea della sofferenza, sia la nostra che quella degli altri. È evidente che poiché le parole non servono ad eliminare le sofferenze in atto, che per cause karmiche le menti degli esseri stanno sperimentando, tutto il processo deve essere visto come stimolo per arrivare al dominio ed alla trasformazione della nostra mente attuale. E, il vero aiuto che il Bodhisattva del Ch’an può dare agli altri esseri umani, è l’insegnamento del metodo, affinché ognuno possa curarsi da sé e guarire da solo dal problema mentale della sofferenza.

Pertanto si deve arrivare al superamento della nostra radicata ostinazione egoica, prima causa di sofferenza, e dell’idea di essere persone fisiche sottoposte a problemi mentali. L’idea di essere persone umane va accettata solo come ruolo temporaneo in un sogno fatto ad occhi aperti e che dura lo spazio di una vita. Allo stesso modo come il sogno notturno, che dura lo spazio di una notte e che, all’alba, svanisce portando con sé l’idea della sofferenza sperimentata durante il sogno. Una cosa è sicura, dando più realtà al mondo fenomenico della sofferenza fisicamente sperimentata, non c’è scampo né salvezza, nulla che ci possa aiutare a farla cessare. Solo la morte potrà interrompere, per un breve lasso di tempo, il problema della sofferenza che, però, dopo si ripresenterà allorché si rientra nell’esistenza con un altro corpo fisico.

Se non si giunge a questa conclusione, ogni sforzo fatto dalla persona umana per liberarsi dalla sua angoscia risulterà vano. L’essere ancorati all’idea di “persona umana” porta con sé l’inevitabile sofferenza e l’inevitabile morte e, pur essendo entrambe terribilmente temute dalla mente, in realtà una soppianta l’altra. Perciò è solo competenza della nostra mente saper comprendere e decidere se attaccarci alla natura umana, e quindi caricarci sulle spalle la sofferenza, oppure scegliere la Via spirituale facendo in modo che la morte sia una Via senza ritorno. Anche la morte, di cui abbiamo parlato spesso, va rivista con una nuova ottica di interesse. Non è certo, il mio, un invito a farvi precipitare tra le nere braccia del ferale Yama, Dio della morte, almeno non prima che abbiate il potere e l’abilità di passarci attraverso, restando indenni da paura e da angosce. Le paure e le angosce della mente ignorante, che poi sarebbero le cause karmiche per un vostro inevitabile ritorno al mondo della sofferenza, devono venire sconfitte in anticipo, prima ancora della morte.

Questa parola, MORTE, così minacciosa e così spaventosa per la nostra mente manasica, esprime un significato finale, esclusivo, che sa quasi da fine del mondo, fine di tutto. Ma in realtà, la morte è solo la fine della mente cogitante (Manas)! Durante la vita non possiamo avere esperienza di questa condizione, come invece accade per le sofferenze, quindi quando si parla di esperienza della morte, CHI E’ che la sperimenta? Questa è l’unica esperienza che non possiamo riferire, né trasmettere, e né raccontare, da cui si desume che non siamo noi che la sperimentiamo, ma QUALCOSA che non può testimoniarla. Qualcosa che, quasi certamente, non la ritiene una FINE, qualcosa che, in definitiva, non può essere che la mente Chitta. Per la Coscienza, la morte come la vita, NON ESISTE!

Perciò, per un momento, proviamo ad immaginare di essere soltanto una Pura Coscienza, che è presente a tutti gli avvenimenti del mondo, ma che non esprime valutazioni né alcun tipo di volontà su questi stessi eventi. Priva di un centro egoico, liberata dalle funzioni del Manas che è obbligato ad interpretare e valo-rizzare nel bene e nel male tutto ciò che sperimenta, la Pura Coscienza (Chitta) non etichetta né subisce nessun rapporto emotivo con questi avvenimenti. Cosa mai potrà sperimentare questa pura Energia Inqualificata della Coscienza, stando in mezzo a tutte le angosce e le paure che tormentano la mente umana? Già il termine “sperimentare” non è prettamente adeguato se riferito alla pura Coscienza, perché richiama il concetto di uno SPERIMENTATORE, ben delimitato e individualizzato.

Vedete in che campo ci stiamo muovendo, la Metafisica è come una lastra di ghiaccio intrisa di olio scivoloso in cui è impossibile avere un appiglio e mantenere una presa. Eppure, all’inizio del nostro ingresso in questo mondo del Manas, nonché alla fine quando con la parola MORTE ne dovremo uscire, quella meta-fisica lastra di ghiaccio scivoloso sarà la nostra sola esperienza. Quindi, è proprio così tanto stupido ed inutile prepararci ad essa? Credete che questa Energia Superiore, da sempre presente e eternamente stabilita nel ‘Sé’, possa venir limitata dalle nostre piccole preoccupazioni umane, anche se queste avvengono nel suo sterminato campo d’azione? Quale evento, quale tragedia potrebbe mai scuotere CIO’ che è al di sopra perfino della morte?

Nel nostro corpo fisico, per tutta la durata della sua esistenza vivente, avvengono continuamente eventi mortali: milioni di batteri e miliardi di cellule muoiono e si riformano costantemente. Eppure noi quasi non ce ne accorgiamo, avvinti come siamo all’idea di un corpo unico e della nostra costituzione tutta di un pezzo. Solo se noi proviamo ad identificarci col batterio o con la cellula, allora la loro morte ci impedirebbe di vedere la continuità di esistenza dell’intero corpo. Questo è solo un esempio, ma può servire da paragone. Quindi, se ora noi riusciamo a cogliere la nostra identità con la Totalità dell’Essere, anziché col nostro piccolo Io manasico, la sofferenza e la morte di una semplice cellula, non ci tocca né ci sconvolge.

Sarebbe veramente interessante se, alla fine della meditazione quando rientriamo nella nostra coscienza ordinaria, prendessimo atto delle modificazioni e degli aggiustamenti che la nostra mente produce nel processo di riadattamento all’esperienza individuale. La Coscienza, anche se sempre presente nella fase meditativa profonda, si distacca temporaneamente dalla percezione egocentrata, situandosi in piani di consapevolezza impersonale non raggiungibili dal soggetto egoico. Perciò, al rientro da questa esperienza non volontariamente indirizzata, sarebbe importante poter cogliere il riemergere della coscienza manasica umana. In questa fase è possibile vedere l’automatico ripresentarsi dell’Io con tutte le sue conseguenti problematiche.

Da parte di alcuni studiosi appartenenti alle scienze neuropsichiche è stato più volte dimostrato che la mente umana, nella fase della meditazione profonda, diventa insensibile alle sollecitazioni esterne come pure alle precedenti situazioni memorizzate. Viene riportato il caso di alcuni ammalati terminali che, pur provando indicibili sofferenze nello stato di coscienza ordinaria, quando venivano sottoposti ad una condizione ipnotica di trance, al loro risveglio dichiaravano di non aver più sentito i precedenti dolori. Questo fatto dimostra che, quando arriviamo a sperimentare una condizione “samadhica” della meditazione profonda, la Coscienza si stacca dalla condizione ordinaria e si posiziona su altri piani. Ricordate la storia dell’Abate Zen e del Samurai, in cui l’Abate perfettamente posizionato nella meditazione Samadhica, non ebbe alcuna paura delle minacce di morte da parte del Samurai?

Abbiamo già parlato delle due posizioni distinte della Coscienza Chitta e Manas, ma quello che ora ci interessa è se la Coscienza, di per sé, sia sottoposta o meno all’obbligo del karma nell’individuo che la incarna. In fin dei conti, la Coscienza sul piano manasico non può impedire all’individuo di percepire sofferenze e angosce, anche se poi lo stesso individuo può non percepirle durante le fasi di distacco dal piano manasico. Inoltre, abbiamo anche esaminato ingiunzioni che stabiliscono che il karma, in realtà, è un effetto valido solo se si genera col nostro credere ad una causa scatenante. Perciò questo ci fa pensare che, quando l’individuo esiste nella sua condizione di credersi un individuo, esso non può svincolarsi nemmeno concettualmente da conseguenti condizioni karmiche che comportano piaceri e dolori, gioie e sofferenze, in maniera più o meno alternata.

Dobbiamo quindi concludere che le sofferenze, la morte, e tutte le cose che la mente teme, esistono solo in quanto la mente le crede esistenti. Anzi, diciamo di più, tutti i problemi della mente umana esistono perché, e fino a che, la mente umana crede in se stessa come manas, come un ‘Io’ strutturato e ben delimitato. Perciò il Bodhisattva del Ch’an, se non ci fossero date le debite istruzioni sul spirituale, sarebbe costretto ad un doppio lavoro. Prima dovrebbe annullare ed allontanare da sé l’idea di esistenza inerente e poi, malgrado il suo ottenimento di uno stato di atarassia e imperturbabilità della mente, deve ripiombare nello stato illusorio per cercare di salvare le menti degli altri esseri. Una fatica titanica senza fine, una vera e propria Ruota di Sisifo rotolata all’infinito… Ecco perché sarebbe dignitoso e giusto dargli una mano nel suo inesauribile compito, cercando da soli di smontare le false credenze dell’Io e distruggendo dalla nostra mente tamasica i semi dell’Ignoranza…

Aliberth – Alberto Mengoni

(Stralcio di un discorso del 22/3/2000 tenuto al Centro Nirvana di Roma)

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La condizione femminile nelle tre religioni di origine semita: ebraismo, cristianesimo ed islam

L’ebraismo era ed è una fede “etnica” che ha lo scopo di mantenere l’unità e l’identità culturale e genetica del popolo ebraico. La sua mitologia, che si fa risalire a quattro o cinque mila anni fa, attinse ampiamente a miti e leggende di quei popoli con i quali gli ebrei vennero, per varie ragioni, in contatto. Ma prima di tutto parliamo di come si è andata formando l’entità ebraica. Ebreo significa nomade e gli ebrei appartenevano a tribù pastorali di origine semitica che giravano in cerchio in un continuo andirivieni ai margini della Mezzaluna Fertile. Essendo pastori e girovaghi avevano sviluppato una cultura tipicamente patriarcale, per loro la donna era un mezzo per generare figli maschi che continuassero l’attività, quindi lo status femminile era molto basso rispetto a quello dei maschi. L’unico vantaggio che avevano le donne ebree era che potevano essere sposate, per continuare la “stirpe”. Mentre la condizione delle donne gohim (ovvero non ebree), con le quali tali pastori venivano in contatto, era ritenuta prossima a quella del bestiame. Le femmine gohim potevano essere violentate, fatte oggetto di commercio, usate come prostitute… ma si badava bene a non prolificare con esse poiché i nati da tali “femmine” non venivano riconosciuti come appartenenti al popolo “eletto”.

Malgrado tutte queste attitudini maschiliste e misogine -come avvenne ad altri popoli semitici- anche i giudei, per un certo periodo, accettarono la presenza nel loro gotha di una divinità femminile, Astarte, compagna di Geova, e garante di fertilità. Ci vollero 6 secoli prima che Astarte fosse obliterata, anche se per molto tempo i loro templi convissero fianco a fianco. Ma alla fine i patriarchi ebrei riuscirono a distruggere il culto della dea, e Geova, in solitario, occupò tutto il firmamento. Poverino, solo com’era sviluppò qualità perverse, era un dio vendicativo e crudele che chiedeva la totale sottomissione al suo disgraziato popolo “eletto” (infatti il Giudaismo è considerato una “religione” in senso genealogico), egli era la fonte di ogni male e andava propiziato con sacrifici cruenti (qui ricordiamo la storia di Caino, che offriva i frutti della terra, non graditi a Geova, e di Abele che uccideva e bruciava armenti sull’ara, del cui olezzo il dio si beava). D’altronde se leggiamo la bibbia scopriamo che tutta la storia degli ebrei è costellata di episodi truculenti, di avventure sodomitiche e di violenze.

Il patriarca Abramo, come uno squallido lenone, non esitò a cedere la moglie Sara al faraone d’Egitto per ottenere i favori del sovrano. Ma non vado oltre, mi limito a consigliare vivamente la lettura della bibbia per poter capire quali sono le radici di quella religione monolatrica (detta impropriamente “monoteista”).

Alcune chicche sulla misoginia e sulle norme “erotiche” ebree possiamo trovarle nel Talmud, il libro dei dettami religiosi: “Tutte le donne non ebree sono prostitute. Eben Haezar. – Un uomo può fare con la sua moglie ciò che più lo appaga, come se lei fosse un pezzo di carne che viene dal macellaio, e che lui può mangiare secondo il suo capriccio, salata, arrostita, bollita o come pesce comprato al mercato. Nedarim 20 b. – Una vergine di tre anni ed un giorno può essere ottenuta in matrimonio dopo un atto sessuale. Sanhedrin 55b. – I rapporti sessuali con un bambino al di sotto degli 8 anni d’età sono leciti. Sanhedrin, 69b. – Un giudeo può violentare, ma non sposare una non-ebrea. Gad. Shas. 2.2”

Che dire poi degli altri insegnamenti contenuti nella bibbia? Il lito-libro non è affatto un testo morale, almeno come lo intendiamo noi, e non contiene alcun principio etico. Accettare i dettami della bibbia significa approvare ogni vizio e crimine. In esso si autorizzano: i sacrifici umani, il cannibalismo, la schiavitù, la poligamia, l’adulterio e la prostituzione, l’oscenità, l’ingiustizia verso le donne, l’intolleranza e la persecuzione, etc. etc. Tra l’altro una delle maggiori colpe della bibbia è l’aver insegnato che “la donna ha portato il peccato e la morte nel mondo. Ella era stata creata per dipendere dall’uomo per tutte le sue necessità e per le informazioni di cui avrebbe avuto bisogno..”.

In tutto questo liquame, stranamente, comparve un fiore, si tratta del “Cantico dei cantici” di re Salomone (sull’autore però non v’è certezza). Forse fu l’influenza benefica della regina di Saba che ammorbidì il cuore di questo rude re israelita (anche se ha tutta l’apparenza di una favola il viaggio della regina di Saba che parte dal regno dei Sabei -un territorio dell’odierno Yemen- per far visita a Salomone accompagnata dai suoi cortigiani con doni preziosi). E suona strano che un poema così fortemente erotico sia stato assunto sin dal Concilio di Yavnè (90 d.C.), nel canone dell’Antico Testamento. Ma le tradizioni religiose, sia quella ebraica che quella cattolica cristiana, provvidero a falsare la letteralità del testo, che in verità descrive senza mezzi termini un amplesso, rimosso in favore di una interpretazione mistica (così forzata nel diniego dell’evidenza da apparire quasi assurda).

Alcuni stralci: “ I figli di mia madre si sono sdegnati con me: mi hanno messo a guardia delle vigne; la mia vigna, la mia, non l’ho custodita. Dimmi, o amore dell’anima mia, dove vai a pascolare il gregge, dove lo fai riposare al meriggio, perché io non sia come vagabonda dietro i greggi dei tuoi compagni… – Lèvati, aquilone, e tu, austro, vieni, soffia nel mio giardino si effondano i suoi aromi. Venga il mio diletto nel suo giardino e ne mangi i frutti squisiti. – Il coro: «Volgiti, volgiti, Sulammita, volgiti, volgiti: vogliamo ammirarti».. – Il diletto: «Come son belli i tuoi piedi nei sandali, figlia di principe! Le curve dei tuoi fianchi sono come monili, opera di mani d’artista. Il tuo ombelico è una coppa rotonda che non manca mai di vino drogato. Il tuo ventre è un mucchio di grano, circondato da gigli. I tuoi seni come due cerbiatti, gemelli di gazzella….”

Con queste belle parole d’amore lasciamo ora il giudaismo e rivolgiamo gli occhi alla sua prima filiazione: il cristianesimo.

Dobbiamo prima di tutto dire qualcosa sull’ “inventore” del cristianesimo. Erroneamente si pensa che questa religione sia stata fondata da un certo Gesù, di cui per altro non esiste alcun riscontro storico della sua esistenza, in verità il cristianesimo è la pensata geniale di un ebreo pentito: Saulo di Tarso. Pentito perché passò da persecutore di ebrei che credevano nel messia Gesù a creatore di una nuova religione in cui Gesù diventava il messia di tutti. Ai tempi di Saulo, che per inciso mai conobbe Gesù, ci furono guerre di rivolta dei giudei contro i romani, Saulo stesso, pur essendo un ebreo, aveva la cittadinanza romana (non si sa come ottenuta, alcuni dicono perché facesse la spia) e in diverse occasioni si scontrò con i capi della comunità giudea mettendosi contro gli stessi discepoli di Gesù soprattutto perché, contrariamente a quanto stabilito dalla legge ebraica, Saulo decise di “convertire” al “cristianesimo” anche i gentili.

Questa fu la sua grande furbata: la figura di Gesù, da messia dei giudei divenne il Cristo o salvatore di tutte le genti. All’interno della originaria comunità ebraica, già allora sparsa in tutto l’impero ed anche oltre, si creò una frattura irreparabile e l’eretico Saulo andando per la sua strada fondò quel nuovo credo da lui chiamato “cristianesimo”.

Sin dall’inizio però, questo “cristianesimo”, fu marchiato e contaminato dall’originale misoginia ebraica. La libertà dei costumi femminili, tipica della società romana e greca, fu irregimentata in codici “morali/sociali” che restringevano sia l’espressività sessuale che l’importanza sociale e politica delle donne. L’esempio più eclatante di queste restrizioni fu l’uccisione della filosofa Ipazia, rea di essere troppo libera e di dare “scandalo” ai seguaci del nuovo corso “religioso”. Si dice che l’odio verso il mondo femminile, pur presente nell’ebraismo, fu esacerbato nel cristianesimo. Fino a raggiungere vette di totale annichilimento anche fisico delle donne che osavano manifestare autonomia di pensiero e di azione, accusate di connivenza con il “demonio”.

Anzi, dal 418 d.C. tutti diventarono “demoniaci”. Anche i bambini appena nati, erano definiti esseri demoniaci, in quanto nati da un atto sessuale e quindi destinati alla dannazione se non venivano battezzati al più presto. Queste belle pensate risultarono nell’acquisizione della chiesa cattolica di ogni potere, religioso e temporale, e la cosa si protrasse dal 375 d.C. fino al XVII secolo (in cui si affermarono le grandi eresie cristiane). Nel Concilio di Nicea fu stabilito, con il beneplacito di Costantino, che Gesù da “re degli ebrei” diventasse il “salvatore e Cristo dell’umanità”. Da allora gli eccidi dei pagani, la distruzione sistematica dei loro templi, soprattutto quelli dedicati alle varie dee, e delle biblioteche antiche, divennero legge (nel 391 d.C. i cristiani, per la prima volta, distrussero ad Alessandria una delle più grandi biblioteche del mondo che conteneva oltre 700.000 volumi sull’intero scibile umano, e successivamente l’opera fu completata dai musulmani).

Le stime degli studiosi, pur in mancanza di documenti ufficiali (poiché le porcherie si fanno nascostamente), sul numero delle persone torturate ed uccise nella sola Europa durante il dominio cristiano, va dalle 150.000 al milione. Ovviamente tali dati vanno integrati con gli stermini dei popoli indigeni nelle Americhe ed in altre parti del mondo.

Va da sé che nei 17 secoli di oppressione della sessualità e del mondo femminile si venne accentuando una sempre maggiore perversione nei costumi ecclesiastici. Quel che non poteva essere vissuto alla luce del giorno divenne oggetto di morbosità e di segreti sfoghi, da parte di papi, prelati e sacerdoti. Soprattutto nel chiuso delle chiese e delle sacrestie. I casi di abusi sessuali sui minori, le relazioni illecite nei conventi, le torture sado-maso contro streghe ed eretici, divennero pratiche correnti e in parte perdurano anche ai nostri giorni. Un esempio melodrammatico della deviata sessualità cristiana ci è fornito nelle feste di Halloween, promosse dalla feccia consumista e massonica, che vengono celebrate negli USA. In esse alcune chiese cristiane istallano delle Hell House, case infernali, per convincere i “credenti” dall’astenersi dal peccato, pena la dannazione eterna. In queste Hell House ci sono varie tappe, un po’ come nelle vie crucis, in cui vengono mostrati diversi peccati: un sacrificio satanico, medici masochisti che praticano aborti, prostitute e libertine che vengono torturate, etc. Alla fine dell’orrida processione si trova, di solito, una scena paradisiaca con Gesù fra gli angeli. Dopo essere stati minacciati di torture indicibili agli inferi i visitatori vengono invitati a prendere rifugio nel Cristo, loro signore e salvatore.

Negli anni, comunque, la figura femminile fu in parte rivalutata attraverso la venerazione della Madre di Dio, Maria. I preti non poterono impedirla e così, in qualche modo l’immagine della Madre Universale, che dona la vita, sopravvisse. Pur umiliata ed offesa, in quanto resa madre per costrizione e senza atto sessuale. Per quanto riguarda la presenza femminile nel mondo religioso, solo nella fede anglicana ed in altre poche eccezioni le donne possono assurgere alla carica sacerdotale. Una di queste sacerdotesse la conobbi, qualche anno fa a Pescara, che per conto della sua “chiesa” aveva sponsorizzato il “Festival della laicità”. Insomma il mondo femminile anche all’interno del cristianesimo sta cercando di ritrovare una sua dignità, riscoprendo anche la santità del rapporto sessuale, come espressione della creatività divina.

Quello che in passato poteva solo avvenire attraverso le estasi mistiche sta prendendo una forma più concreta e tangibile di amore carnale, non deprivato di spiritualità. Certo, se la chiesa cattolica accettasse il sacerdozio femminile ed il matrimonio fra i suoi membri, e se venisse abolito il potere temporale del papato (e la stessa figura del papa), la chiesa cattolica forse potrebbe riscattarsi dalle malefatte compiute in questi secoli. Ma dubito che ne abbia la forza… e quindi è destinata a scomparire. La storia non fa sconti e l’iniquità ha concluso il suo tempo.

Però ad onor del vero alcuni santi cristiani dimostrarono amore e rispetto verso la Madre Universale e verso il mondo femminile. In particolare questo atteggiamento fu vissuto da Francesco d’Assisi. La sua adorazione di dio essendo rivolta a tutte le creature. Francesco può essere considerato un amante della natura in cui riconosceva l’impronta divina. Sempre egli si adoperò di mantenere un comportamento adatto alla conservazione della vita, occupandosi di animali, di lavoro, di contemplazione delle bellezze naturali ed accettando nel novero dei suoi compagni anche diverse donne, che erano a lui devote e che in tutti i modi gli dimostrarono amore, sicuramente dal santo ricambiato, poiché essendo vissuto da laico conobbe l’amore e sapeva che questo non è contrario alla volontà di dio, anzi è la sua espressione.

In attesa, quasi nella speranza, che il cristianesimo trovi un nuovo Francesco, osserviamo ora l’ascesa sempre più rapida dell’ultimo ramo dell’ebraismo, trattasi dell’islam.

E pure qui dobbiamo cominciare a narrare le origini di questo credo. Anche nel caso dell’islam è indubbio che le radici affondino nell’ebraismo, con influssi cristiani, teoricamente potremmo definire l’islamismo una sorta di “eresia” degli insegnamenti biblici e paleo cristiani, se non che, ergendosi la figura di Maometto come “ultimo e vero profeta” e utilizzando questa preminenza a fini politici, gli arabi ne approfittarono per scatenare una campagna di conversioni forzate che portò l’islam a divenire il più grande impero medioevale, in concorrenza stretta con quello dei tartari in estremo oriente e con Bisanzio e Sacro Romano Impero in occidente. Ma la forza dell’impero bizantino non era decisamente in grado di contrastare la conquista islamica e l’Europa cristiana era divisa in vari stati spesso in antagonismo fra loro, di conseguenza l’Occidente corse il rischio di essere fagocitato. Già la Spagna, la Sicilia ed i Balcani erano divenute terre musulmane, mentre le città costiere di Francia ed Italia erano continuamente saccheggiate da pirati saraceni, che in diversi luoghi stabilirono anche capisaldi. Forse furono le crociate in terra santa che crearono un diversivo all’avanzata musulmana o forse le divisioni interne all’islam che ad un certo punto esaurirono l’alta marea della conquista e delle conversioni al Corano.

E qui dobbiamo inserire una recente notizia di cronaca relativa a questo sacro testo. Recentemente una ricercatrice italiana, Alba Fedeli, ha annunciato la scoperta della più antica copia del Corano che si conosca. Il “problema” è che l’esame del carbonio 14 avrebbe dimostrato che è stata scritta prima della predicazione del profeta islamico, vissuto tra il 570 e il 632 dopo Cristo. Gli storici britannici che hanno confermato l’originalità del documento hanno definito la scoperta “destabilizzante” per le sue implicazioni: una scoperta che dà credito all’ipotesi che Maometto e i suoi seguaci usassero un testo già esistente, che poi modellarono in base alla propria visione politica e teologica. Una spiegazione che va a smontare la versione ufficiale secondo cui il Corano venne scritto da Maometto, sulla base di una rivelazione divina…

Ma torniamo al tema principale di questo articolo, ovvero l’analisi di come è percepito l’erotismo e la condizione femminile nelle varie religioni di origine semitica. Anche nell’islam, come nell’ebraismo e nel cristianesimo, la forte impronta maschilista e patriarcale stabilisce il tipo di rapporti fra il maschile ed il femminile e fornisce indicazioni sulle diverse attitudini sessuali.

Vediamo ad esempio che Maometto all’inizio della sua carriera sposò una donna anziana ma ricca, il che gli permise di potersi dedicare alle sue visioni mistiche senza preoccuparsi della sopravvivenza. Più tardi però, per compensare, sposò una giovinetta appena adolescente in modo da poter soddisfare anche le sue pulsioni carnali. Ancora oggi nelle nazioni islamiche i matrimoni con bambine vergini sono assolutamente nella norma e spesso ne leggiamo le drammatiche conseguenze sui giornali. Un’altra caratteristica dell’islam è la poligamia. Un uomo può avere quante mogli riesca a mantenere ed anche qui l’origine dell’usanza è “religiosa”. Infatti siccome la donna è considerata proprietà dell’uomo e siccome anche le donne non musulmane una volta impalmate vengono cooptate nella religione, avere molte mogli (magari rapite in Europa) contribuisce alla formazione di nuovi adepti (la prole diventa tutta musulmana). Tra l’altro difficilmente chi era stato convertito all’islam poteva abiurare poiché era prevista la morte per chiunque rinnegasse la vera fede.

Un altro aspetto della sessualità nell’Islam è la “dichiarata” opposizione ai rapporti sodomitici ed alla zooerastia, e ciò era motivato (come avvenne per la proibizione a nutrirsi di maiale o di armenti non dissanguati) da ragioni pratiche e dalla necessità di correggere un’inveterata tendenza. Infatti, come per gli altri popoli di origine pastorale, l’abitudine a soddisfare le proprie voglie godendo di bestie e di giovinetti era talmente radicata che bisognava metterci un freno, con una precisa ingiunzione religiosa. Pena l’inferno eterno. All’inverso per i virtuosi che seguono diligentemente le norme coraniche e che muoiono combattendo per l’islam si aprono le porte del paradiso, con 70 vergini sempre pronte a soddisfare le loro voglie e fiumi di vino e miele. Ovviamente non si fa menzione di quale sia il vantaggio per le donne islamiche.

Ma lo stesso Maometto ha dichiarato la posizione gerarchica tra l’uomo e la donna, mostrando ai suoi seguaci come “educare le proprie mogli picchiandole con dei panni arrotolati”. Da questo atteggiamento, simbolico o meno, si capisce quanto i seguaci dell’islam disprezzino il mondo femminile (pur volendone godere a tutti i costi). E lo stesso corano raccomanda: “Ammonite quelle di cui temete l’insuburdinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele (Corano 4:34)”.

Lo status delle donne nel mondo islamico è veramente infimo e lo vediamo ogni giorno in quelle tristi immagini di donne in burka e lo leggiamo su tutti i giornali relativamente ai continui stupri e violenze subite. Addirittura se una donna si ribella allo stupro e reagisce viene condannata. E se lo stupro in questione viene compiuto da un congiunto questo è considerato “adulterio” e la vittima può essere anche lapidata a morte. Le donne che hanno subito la violenza carnale possono essere punite per la vergogna che hanno arrecato alla famiglia. La donna è vittima ma la colpa è della donna. Assurdità di un fondamentalismo cieco e disumano.

Nella patria di Maometto, l’Arabia saudita, la religione di stato è il wahabismo, una variante super-ortodossa dell’islam sunnita, che stabilisce, riguardo alle donne, di non poter assumere ruoli sociali, oltre alle funzioni servili, esse non possono nemmeno ottenere la patente di guida.

Leggiamo ancora nel sacro testo: “Le donne debbono abbassare lo sguardo in compagnia degli uomini e se un ospite visita la casa devono essere nascoste da una tenda o da una barriera. (Corano 24:31 e 33:53). Il fatto è che, come avviene per la bibbia, la premessa iniziale del corano è che tali ingiunzioni sono la “parola di dio, così come è stata rivelata al profeta Maometto” e quindi non possono assolutamente essere messe in dubbio. Come il giudaismo ed il cristianesimo anche l’islam è una religione creata da uomini, al solo scopo di controllare altri uomini, e soprattutto le donne, una cosa che non ha nulla a che fare con dio.

Per fortuna anche nell’islam c’è stata una componente “umana” che ha saputo mantenere l’amore. Si tratta della componente sufi. Un grande poeta sufi fu Omar Khayyâm del quale qui riporto alcune poesie: “Col mio amor, sotto due rami conserti, col mio amor, sul confine dei deserti, ove non giunge della gloria il suono; e avrei ciò che a Mahmud non dà il suo trono.” – “Se questa passion che un ordin pare mi vien dritta dal ciel, perché il divieto? Dovrò accostar la tazza al labbro lieto, accostarla, o Signore, e non versare?” – “Guai a quel cuore in cui non è ardor di passione, che non è pazzo per l’amore d’una bella persona . Un giorno che tu abbia trascorso senza amore, non v’è per te altro giorno più perduto di quello.” – “Non vietatemi di bere vino, di godere le donne, perché Dio è compassione. Non ditemi che sto peccando, lasciatemi peccare a volontà. Porre fine alle proprie azioni per paura della punizione è da miscredenti, significa dubitare della Sua compassione”

E con queste immagini amorose chiudo il discorso.

Paolo D’Arpini

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La pratica spirituale non è un “lavoro” ma una amorevole cura per la vita

Taluni ritengono che la pratica spirituale sia una sorta di “occupazione” come quella di uno studente o di un lavoratore che deve espletare specifici compiti per “ottenere” l’illuminazione o perlomeno il risveglio. Questo atteggiamento “volontaristico” crea spesso aspettative e dal punto di vista spirituale addirittura allontana dalla vera conoscenza, poiché ci si fissa sul mezzo senza guardare il soggetto che vuole raggiungere la conoscenza.

Il soggetto in verità è il nostro stesso Sé ma noi lo ignoriamo e lo rendiamo un “oggetto” da perseguire. E quell’ “oggetto” è il nostro ego -come diceva Ramana Maharshi- che si traveste da poliziotto per cercare il ladro che egli stesso è.

A proposito di questo “gioco” ricordo la frase pronunciata dal re Janaka che, dopo aver ascoltato e compreso l’insegnamento nondualistico impartitogli dal suo guru Vasishta, esclamò: “Ora ho compreso chi è il ladro e lo sistemerò immediatamente” (riferendosi alla tendenza identificatrice con il corpo mente che ritiene di compiere l’azione).

Insomma la foga nello svolgere il cosiddetto “dovere” religioso e la compulsione a praticare per ottenere risultati attraverso la volontà e la penitenza, può procurare forme di dipendenza e di illusione “spirituale” ed è una devianza rispetto alla sincera ricerca interiore.

Questo avviene quando ci si lega ad una setta, quando si aderisce ad una religione e ci si affida alle indicazioni di un ipotetico “salvatore”. Sembra che alcune persone abbiano bisogno di sentirsi “radicate” e affratellate in un gruppo compatto (spesso succede con i cristiani ed i maomettani, e simili fedi), soprattutto se stanno vivendo momenti di vuoto affettivo o di altro genere (preoccupazioni mondane, senso di mancanza o inadeguatezza, etc.).

Però mettersi contro apertamente o denigrare le scelte compiute da tali persone non le aiuta a comprendere la causa del loro bisogno di riempire un buco, che risiede nella loro incapacità di accettare se stessi per quel che sono senza pensare di voler forzatamente modificare lo stato di cose o la propria condizione in funzione di un ipotetico ottenimento “altro”.

L’accettarsi soltanto può interrompere il meccanismo del desiderio e della paura, perché accettando si comprende la situazione vissuta nella sua interezza e l’azione confacente sorge spontanea. Ma l’accettazione talvolta è anche dolorosa. Questo riguarda ognuno di noi che vive nel mondo. Ma vivendo consapevolmente nel mondo si può comprendere la natura del mondo e della coscienza.

Comunque non si può definire od impartire una “cura” universale per le diverse anomalie di interpretazione della propria realtà, dicendo “fai questo o fai quello”. A volte abbiamo anche bisogno di perderci per poi ritrovarci. Ognuno deve poter crescere a modo suo.

Per sviluppare la chiarezza interiore ci vuole discriminazione e distacco. L’autoindagine consigliata da Ramana Maharshi o da Nisargadatta Maharaj è la via più diretta per individuare il “ladro” che ci deruba della Consapevolezza (trascinandoci nel mondo del pensiero e della speculazione).

Anche il fissare l’attenzione su una formula, come i koan nel sentiero zen (in cui si chiede al neofita di rispondere a domande che ragionevolmente non possono avere risposta) può decisamente aiutare, come pure l’attenta ripetizione di un mantra. Ma il mantra non va considerato un modo per sviluppare la volontà o la capacità di ottenere poteri mentali o benessere, serve al contrario a sciogliere ogni supposizione di potere e di identificazione con gli stati mentali. Il mantra per svolgere la sua funzione deve essere vivo, impartito da chi ha realizzato la sua natura, che è il Sé. La ripetizione del mantra è un fatto personale e andrebbe praticata durante l’arco della giornata, mentalmente, per centrarsi sul Sé (sulla Consapevolezza). Io stesso uso questo metodo semplice che non richiede altri aiuti se non la rimembranza e l’attenzione rivolta al Sé. in questo abbandono ed in questo arrendersi al proprio Sé sorge l’amore, e la comprensione di ciò che realmente noi siamo, aldilà della forma e del pensiero.

Paolo D’Arpini

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