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Il viaggio del sé verso il Sé… l’incontro con Swami Muktananda

“Buongiorno Paolo, spero stia bene. La disturbo per una mia curiosità. C’è stato o c’è,un personaggio, un insegnamento, un’esperienza di Vita che più di ogni altra, Le è stata guida, Maestra nella Vita? RingraziandoLa di Cuore, Le auguro una serena settimana…” (Simone)

Mia rispostina “L’esperienza più significativa ed importante della mia vita è stato l’incontro con il mio Guru, Swami Muktananda, con tutto quel che ne consegue.”

Come posso raccontare l’incontro avuto con me stesso, come potrei descrivere l’io dinnanzi all’Io? Questo riconoscimento del Sé avviene come stabilito dal destino. Per me accadde allorché mi trovai dinnanzi al mio Guru Muktananda. Ma definire un “qualcuno” Guru è una limitazione alla verità, poiché Guru non è semplicemente una persona ma è la Coscienza unitaria che anima e si manifesta in ogni persona. Quella Coscienza io sono. Ma prima di giungere a questa “consapevolezza di Sé” dovrò fare molta strada indietro nel tempo, per raccontare spezzoni e spezzoni del mio sogno, della mia identificazione con l’immaginario “io” che ho creduto di essere per tanto tempo…

Questo discorso metafisico è alquanto strano, non c’è altri che il “Sé” eppure quando si prefigura un “io” automaticamente la mente produce un soggetto che si ritiene attore ed usufruitore di ogni esperienza vissuta, questo io, od ego, è un’identità riflessa nello specchio della coscienza, è un’immagine speculare che non potrà mai essere il vero “Io” eppure ne rappresenta le caratteristiche, in quanto coscienza, come ogni immagine speculare…

Lascio da parte ogni tentativo goffo di descrivere l’indescrivibile e mi soffermo sull’aspetto riferibile di quell’incontro con il Sé, quel momento di realizzazione e di assoluta libertà e presenza che avvenne… presente ora come allora e come sempre sarà….. Ma quella meravigliosa “ri-unione” non poteva avvenire che nel momento stabilito dal fato, non poteva succedere ad esempio nel 1970 allorché Swami Muktananda visitò Roma e soggiornò in una semplice casa di Via Trionfale presso una semplice famiglia, di italiani “qualsiasi”, la famiglia di Giacomo e Giovanna Pozzi. In quel tempo stavo ancora godendo dell’assoluta creatività del mio piccolo io. Dovevo spogliarmi di quelle vesti per mezzo di un viaggio a ritroso, nell’abbandono dell’identificazione, un viaggio che fisicamente mi portò ad attraversare tutta l’Africa, sino a perdere ogni voglia di essere qualcuno o qualcosa ed infine mi consegnò davanti a me stesso, ed allo stesso identico momento di fronte al Guru Swami Muktananda.

Accadde nel giugno del 1973. E qui di seguito brevemente vi riferisco il primo approccio di questo incontro…..

In viaggio verso il Sé.

Ce l’ho fatta, ho giusto i cento dollari per il passaggio (o poco più)
ma sono sulla nave che mi porta in India, dopo aver attraversato
l’Africa equatoriale in un viaggio epico e misterioso, con mezzi di
fortuna e facendo la manche per il sostentamento spiccio. Mi sono
spacciato per “scrittore in esilio” ho chiesto soldi a tutti senza
vergogna e i soldi mi sono stati dati, in Costa d’Avorio, Alto Volta,
Togo, Dahomey, Camerun, Congo Brazzà, Congo Belga, Impero
Centrafricano, Ruanda, Tanzania, Kenia… Eccomi, dopo esser rimasto
sotto il sole nella spiaggia di Malindi, per un mese buono, ospite di
un’amica, Walda, in un bellissimo cottage sul mare con l’unico compito
di fumare il narghilè e giocare con la sabbia, infine mi sono stufato
e con gli ultimi risparmi mi compro un biglietto di terza classe sul
cargo che collega Mombasa a Bombay. Insomma il viaggio continua e,
senza volerlo, non avendo altro posto dove andare, vado in India la
terra dei Guru….

E’ l’estate del 1973, dopo dieci giorni di mal di mare sbarco a Bombay
il 23 giugno. Lo ricordo bene perché era quello il giorno del mio 29°
compleanno. Dopo l’Africa mi sembrava di non voler conoscere più
altro, cosa andavo a fare in India con tutti quei guru che vivevano di
storie raccontate? Molto scettico, quasi ostile, verso tutto
quell’interesse paraspirituale che era sorto in Europa dopo il ’68…..
Ed io il ’68 l’avevo fatto, ed anche il ’69, il ’70 e tutti gli anni a
seguire, insomma avevo vissuto nel vortice, ero un intellettuale, un
illuminato, che ci andavo a fare in mezzi ai guru?

Già, immaginavo che ci fossero guru ad ogni angolo di strada pronti ad
imbambolare la gente con le loro litanie. “Niente paura, io son laico
di natura, li smaschererò tutti..” mi dicevo, e così pensando appena
fuori del porto mi ritrovo su un calesse che corre a velocità
stratosferica verso l’area centrale di Bombay, dove sta il grand-hotel
Taj Mahal e gli alberghetti per occidentali.

Una fortuna pazzesca, non c’è posto in nessun albergo a poco costo e
vado a bazzicare nella hall del Rex Hotel (a quel tempo abbastanza
quotato), lì incontro subito due ragazze, una è italiana e si chiama
Pupa l’altra italo-americana e si chiama Francis. Attacco bottone,
sono specialista in questo, e trovo posto a gratis nel letto di Pupa e
mi tengo buona Francis per un dopo. Potete immaginare la mia
meraviglia allorché scopro che le due donzelle vengono proprio
dall’ashram di un “famoso” guru, che dicono chiamarsi Muktananda, ma
io non l’ho mai sentito nominare. Indago astutamente su di lui e
siccome le ragazze mi invitano ad andarlo a conoscere accetto pensando
che finalmente potrò confrontarmi con un guru. Immaginatevi uno che si
è fatto tutta l’Africa, in mezzo a mille pericoli, sommosse,
aggressioni, baruffe, fame, sete, paura, sonno, malaria, erba, insomma
tutto quanto possa forgiare un uomo, renderlo sicuro di sé –entro un
certo limite s’intende- uno che ha viaggiato e sa, conosce le
situazioni ed i pensieri della gente, un sopravvissuto a se stesso,
quell’uomo, io, si trova a doversi togliere gli stivali per entrare
dentro il tempio del guru. Sì, togliere gli stivali, praticamente
spogliarsi impedirsi una via di fuga, umiliarsi….

Non c’è nulla da fare o ti togli gli stivali o non entri, questa è la
regola. Me li sono tolti, perché son più forte persino degli stivali,
non ne ho bisogno.. ed entro nel tempio. Stanno cantando un canto
dolce, dicono che durerà una settimana di seguito, il “mantra” lo
conosco l’avevo già sentito sulla nave che mi portava in India cantato
sulla tolda da gruppi estatici di indiani accompagnati dall’harmonium
a soffietto. Qui è la stessa cosa, ma c’è più sintonia, la melodia è
trascinante, ed a me piace cantare, mi metto a cantare anch’io… E
mentre canto, e passa il tempo, insondabilmente mi ritrovo presente a
me stesso. Ma star seduto per terra sul pavimento così a lungo mi fa
venire una voglia incredibile di andare a pisciare, sto per alzarmi ma
una voce interna a quel punto mi ordina “puoi andare a pisciare solo
dopo esserti inchinato”. Come, inchinarmi io? Cos’è questa nuova
barzelletta che mi frulla in testa? Resto bloccato non posso muovermi
son controllato da una forza sconosciuta, anzi ri-conosciuta, passa
altro tempo ed alla fine debbo cedere non ce la faccio più, mi
inchino, come ho visto fare qualche altro, di fronte ad una statua
nera, sopra c’è scritto “Om Namah Shivaya”. Stranamente non resto
impressionato dall’esperienza, mi pare che non abbia importanza è
stato solo un momento di debolezza.

Ed ora l’incontro con il guru. E’ scesa la sera, abbiamo già cenato,
Muktananda sta seduto sui gradini della sua dimora in un cortile
interno dell’ashram. Vedo delle persone che passano in fila davanti a
lui e chiedo a qualcuno “Di che si tratta? Che succede?” – “Oh, il
maestro sta distribuendo il prasad” Curioso mi metto anch’io in fila
pensando, finalmente potrò vedere in faccia questo guru, ma la notte è
buia non vi sono luci se non qualche lumino qua e là, all’improvviso
mi trovo di fronte al guru, non vedo nemmeno la sua forma solo
un’ombra nell’ombra, un’intuizione mi si staglia però nitida nella
mente, inequivocabile ed inconfondibile “Ecco, mi ha riconosciuto!” Ma
subito dopo “com’è possibile non l’ho neanche mai visto..” .
Abbacinato ed imbambolato, resto fermo lì davanti mentre Muktananda mi
spinge un qualcosa sulla mano, resto immobile, pietrificato, finché
qualcuno da dietro la fila mi spintona per farmi procedere. Nella mano
ritrovo un pezzo di dolce al latte. Che farne? Indovino che la cosa
migliore sia di mangiarmelo. Com’era buono!

Paolo D’Arpini

…………………………

Consigli spirituali

Se uno si atteggia a maestro ma non è mai stato discepolo, sappi che è
solo una pestilenza.

L’Universo è perché tu sei, Dio è perché tu sei. Oh amico perché
ignori te stesso per cercare un altro?

Quegli parla molte lingue, ha visitato numerosi paesi, ha ottenuto
vari titoli e grande successo. Ma – oh amico – se egli non gode la
gioia dell’anima è solo un accattone.

Nella mia ricerca della verità ho viaggiato a lungo, ho interrogato
parecchia gente e visitato vari luoghi sacri, ma nessuna risposta
giunse. Poi mi son fermato ed ho trovato la verità, dentro di me.

Se cancelli “io” tu diventi l’Io.

Una prostituta che vende il suo corpo per guadagnarsi da vivere è
sicuramente meglio di uno yogi che usa la sua conoscenza per farsi un
nome, salire nella scala sociale, godere di piaceri mondani o
conquistare ricchezze.

Sii amico del maestro che ti eleva al suo stesso livello, che ti
affranca dalla trappola di nome e forma e ti rende libero come se
stesso.

Se una goccia d’acqua si fonde nell’oceano non è più una goccia, è l’oceano.

Oh amico, se vuoi restare in pace non usare furbizia con il tuo maestro.

Non fuggire perché temi le difficoltà, ovunque tu vada le difficoltà
ti seguiranno, ricordalo.

Oh amico, tu sei nato nel ventre di donna, sei cresciuto succhiando il
suo latte, perché distruggi te stesso accusandola?

Se cerchi l’amore, la bellezza ed il rispetto nella tua vita,
controlla i tuoi sensi.

Un mendicante che ha una mente serena vive meglio di un imperatore.

Oh amico, altisonanti titoli quali eccellenza, onorevole, reverendo o
conquistare gli omaggi del mondo, son tutti fiori di plastica e
null’altro, se il messaggio della saggezza non è presente.

Ognuno cerca il posto od il rapporto ideale. Rendi il tuo stesso cuore
ideale, perché vagare di porta in porta?

Swami Muktananda

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L’amore, come via spirituale, secondo Osho

L’amore è doloroso perché apre la strada all’estasi. L’amore è doloroso perché trasforma: l’amore è cambiamento. Qualsiasi trasformazione è dolorosa perché occorre lasciare il vecchio per il nuovo. Il vecchio è familiare, sicuro; il nuovo è assolutamente sconosciuto. Nel nuovo ti muoverai in un oceano mai esplorato.

Per questa ragione nasce la paura; quando lasci il vecchio mondo – confortevole, sicuro – nasce il dolore. È lo stesso dolore che prova il bambino quando esce dal ventre della madre. La paura dell’ignoto, l’insicurezza dell’ignoto, la sua imprevedibilità, ti spaventano moltissimo.

Ma non si può avere l’estasi senza passare per l’agonia. Per purificare l’oro, esso deve passare attraverso il fuoco.

L’amore è fuoco.

È proprio a causa del dolore che l’amore procura, che milioni di persone vivono una vita senza amore. Anche loro soffrono, ma la loro è una sofferenza inutile. Soffrire per amore non è soffrire invano. Soffrire per amore è creativo: ti porta ai livelli più alti di consapevolezza. Soffrire senza amore è un totale spreco, non ti porta da nessuna parte.

L’amore più alto richiede che tu sia aperto. Richiede che tu sia vulnerabile. Devi lasciar andare la tua armatura, ed è doloroso. Non devi stare sempre in guardia, devi abbandonare la mente e i suoi calcoli. Devi rischiare, devi vivere pericolosamente. L’altro può ferirti – è per questo che hai paura di essere vulnerabile. L’altro può rifiutarti – è per questo che hai paura dell’amore.

Evitando la situazione, non puoi crescere. È necessario accettare la sfida. Occorre entrare nell’amore. È il primo passo verso dio, e non può essere aggirato. Quelli che cercano di evitare lo spazio dell’amore, non raggiungeranno mai dio.

È una necessità assoluta, perché diventi consapevole della tua totalità solo quando vieni stimolato dalla presenza dell’altro, quando la tua presenza viene rafforzata dalla presenza dell’altro, quando vieni aiutato a uscire dal tuo mondo chiuso, narcisista, e portato fuori sotto la volta infinita del cielo.

L’amore è un cielo, vastissimo. Essere in amore vuol dire mettere le ali. Ma naturalmente, il cielo infinito fa paura.

Inoltre lasciare andare l’ego è molto doloroso perché ci hanno insegnato a coltivarlo. Pensiamo che l’ego sia il nostro unico tesoro. L’abbiamo protetto, decorato, l’abbiamo lucidato in continuazione e, quando l’amore bussa alla porta, tutto ciò che ci occorre per innamorarci è mettere da parte l’ego: è doloroso, certo. È il lavoro di tutta la tua vita, è tutto ciò che hai creato, questo ego orrendo, questa idea che sei separato dall’esistenza.

La verità è che tu sei parte del tutto. Il tutto ti penetra, il tutto respira in te, pulsa in te, il tutto è la tua stessa vita. L’amore ti dà la prima esperienza di armonia con qualcosa che non è il tuo ego. L’amore ti insegna per la prima volta che puoi entrare in armonia con qualcuno che non è mai stato parte del tuo ego.

Se puoi essere in sintonia con una donna, con un amico, con un uomo, se puoi essere in sintonia con il tuo bambino o con tua madre, perché non puoi esserlo con tutti gli esseri umani? E se essere in armonia con una sola persona ti dà tanta gioia, quale sarà il risultato se sarai in armonia con tutti gli esseri umani? Ma se puoi entrare in sintonia con tutti gli esseri umani, perché non anche con gli animali e le piante? Un passo porta al successivo. L’amore è una scala: inizia con una persona, e finisce col tutto.

L’amore è l’inizio, dio è la fine. Aver paura dell’amore, aver paura dei dolori della crescita che l’amore procura, vuol dire rimanere chiusi in una cella oscura. L’uomo moderno vive in una cella oscura: è narcisista. Il narcisismo è l’ossessione più grande della mente moderna. L’amore crea problemi; puoi evitarli, evitando l’amore. Ma quelli sono i problemi essenziali! Bisogna affrontarli, viverli e passarci attraverso per andare oltre. L’unico modo per andare oltre è di passarci attraverso.

L’amore è l’unica cosa che valga la pena di fare. Tutto il resto è solo un mezzo, ma l’amore è il fine. Quindi, per quanto sia doloroso, entra nell’amore. Se non entri nell’amore – come hanno deciso molte persone – rimani intrappolato all’interno di te stesso. Allora la tua vita non è un pellegrinaggio, non è un fiume che va verso l’oceano; la tua vita è una pozza stagnante, sporca, e molto presto resteranno solo lo sporco e il fango.

Per rimanere limpido, devi continuare a fluire. Il fiume rimane pulito perché scorre.
Le persone che non amano si addormentano, diventano stagnanti, e prima o poi – più prima che poi – iniziano a puzzare perché non hanno nessun posto dove andare. La loro è una vita morta. L’uomo moderno si trova in questa situazione, e per questo motivo nevrosi di ogni genere, follie di ogni genere, sono dilaganti. Il disagio psicologico ha preso proporzioni epidemiche.

Questa nevrosi nasce dal tuo ristagnare, dal tuo narcisismo. Forse non ti uccidi prendendo del veleno o saltando dall’alto di una rupe o sparandoti, ma puoi suicidarti in modo molto lento, e questo è proprio ciò che accade. Pochissime persone si suicidano tutte di un colpo. Gli altri hanno scelto un suicidio lento, graduale: muoiono a poco a poco. Ma la tendenza al suicidio è diventata quasi universale. Non è vita questa, ma la causa, la causa fondamentale, è che abbiamo dimenticato il linguaggio dell’amore. Non siamo più così coraggiosi da buttarci nell’avventura chiamata amore.

La gente è interessata al sesso, perché il sesso non è pericoloso. È il fenomeno di un momento, non occorre coinvolgersi. L’amore è coinvolgimento, è impegno. Non è un fenomeno del momento. Quando ha messo le radici, può durare per sempre. Può diventare un impegno che dura tutta la vita.

L’amore è doloroso, ma non evitarlo. Se lo eviti, perdi la più grande opportunità di crescere. Entra in esso, con tutta la sua sofferenza, perché grazie alla sofferenza arriva una grande estasi. Sì, c’è agonia, ma da questa agonia nasce l’estasi. Sì, dovrai morire come ego, ma rinascerai come dio, come buddha.

L’amore ti darà il primo assaggio del Tao, del Sufismo, dello Zen. Ti darà la prima prova che dio esiste, che la vita non è priva di significato.

Quelli che dicono che la vita non ha significato sono quelli che non hanno conosciuto l’amore. In effetti stanno dicendo che nella loro vita è mancato l’amore. Lascia che ci sia il dolore, lascia che ci sia la sofferenza. Passa attraverso la notte oscura, e arriverai a una bellissima alba. Solo nel grembo della notte oscura, il sole può evolversi. Solo attraverso la notte oscura arriva il mattino.

Osho

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La storia di Calcata quando era Arx e la storia del Treja quando era il Tevere e…


Calcata immaginifica di Sofia Minkova

Spesso quando ancora risiedevo nel borgo più chiacchierato d’Italia parlavo di Calcata agli amici che venivano a trovarmi imbrogliandoli sulle sue origini, raccontando varie storielle attinte alla mia fantasia. In parte lo faccio ancora oggi in qualsiasi luogo io mi trovi, che sia Spilamberto o Treia, ma io non le chiamo favole ma “psicostorie”… E a dire il vero non sono totalmente invenzioni della mia fervida mente immaginativa. Le mie narrazioni fanno riferimento a qualche fatto realmente accaduto, forse più che “bugie” potrei definirle “visioni dall’inconscio”, letture dell’Akasha…
Allora, dovete sapere, e questo sta scritto persino nei depliants del Parco del Treja, che l’acrocoro di Calcata fu scavato dal paleotevere, cioè Calcata era un’isola, come oggi lo è l’isola Tiberina, del fiume Tevere che migliaia di anni fa scorreva proprio in questa valle. La valle del Treja dovrebbe chiamarsi “valle del Tevere” ma a causa di un terremoto o più probabilmente di un’eruzione dei vulcani Sabatini, il Tevere cambiò corso (passando dall’altro lato del monte Soratte) e Calcata rimasta quasi all’asciutto divenne l’impervia rocca che oggi conosciamo. Chissà cosa sarebbe accaduto se non fosse andata così… molto probabilmente quell’isola che funse da volano per la nascita di Roma, ovvero l’isola Tiberina (che ricordiamolo era l’ultimo attracco e guado possibile prima che il Tevere confluisse nel Tirreno), avrebbe potuto essere la nostra Calcata e chiamarsi “Arx” (Arca), giacché –ricordiamolo ancora- i Falisci che fondarono quest’Arca di Luce che divenne Calcata, parlavano il latino, anzi sono gli unici e veri “latini” che abitavano tutta la bassa valle del Tevere sino ai sette colli di Roma. Altri “latini” non esistono né sono mai esistiti, la cosiddetta patria dei Latini Albalonga è una bufala storica tanto per creare confusione sulla nascita di Roma, come la leggenda dell’arrivo di Enea. Insomma all’inizio c’erano solo i Falisci, tribù indoeuropee, che parlavano falisco (cioè il latino) e che convivevano con altre tribù consanguinee sabine e sannite. Anche i cosiddetti Etruschi erano essi stessi più o meno della stessa etnia e basta, anch’essi genti italiche indoeuropee dal punto di vista etnico ma che avevano assunto i modi e la lingua delle popolazioni anatoliche che giunsero sulle sponde tirreniche (poi dette appunto Etruschi o Tirreni), ne più ne meno come avvenne per i Cartaginesi i quali massimamente non erano altro che nord africani che avevano appreso i costumi e l’idioma fenicio (ma non prendete queste mie affermazioni come oro colato…).
Se ragioniamo bene scopriamo che egualmente avvenne per le popolazioni del Danubio (Dacia) che oggi chiamiamo “Romania”, i rumeni non sono altro che gli abitanti originari di quell’area che assunsero la lingua e la cultura romana. Insomma i Falisci sono i veri “Romani” e solo in seguito si tese a differenziarli in falisci, falisci capenati, latini ed infine romani. In verità sono i Falisci stessi che fondarono Roma, rinunciando all’etnia originaria assumendo una nuova identità giuridica e culturale. E c’è un’evidenza storica che avvalora questa ipotesi giacché i Falisci e la loro civilizzazione risale al villanoviano mentre Roma fu fondata solo nel 700 a.C.
La storia leggendaria della fondazione di Roma non è altro
che il rifacimento della storia di Fescennium, la mitica prima città falisca, che l’archeologo inglese G. Potter, non impregnato di “romanismo”, scoprì durante i suoi scavi a Narce, Pizzopiede e Montelisanti, tre colline che circondano Calcata, nucleo portante della prima città policentrica “Arx”. Lo stesso processo fondativo, dopo molti secoli, avvenne sui famosi “sette colli” della città poi chiamata eterna. Ma, qui ritorno alla psicostoria, la “città eterna” (se il Tevere non avesse cambiato il suo corso) avrebbe potuto essere Arx -ovvero Narce- (che è una storpiatura di Arx).

Arrivo al dunque, ecco come ho immaginato questa trama…..

Calcata e Roma fra storia e psicostoria.

Ci sono due modi per osservare: dall’interno e dall’esterno. L’uomo si trova al centro dell’universo ed osserva il mondo che lo circonda ma, a sua volta, è osservato dal mondo. In che modo si svolge questo gioco? Ogni volta che rivolgiamo l’attenzione alle cose che ci stanno attorno stiamo osservando il mondo ed ogni volta che passiamo all’introspezione è l’universo nella sua interezza che osserva noi. Questo passatempo può avvenire solo attraverso la coscienza, infatti è solo tramite la “consapevolezza” che è possibile osservare colui che osserva. Per contemplare, appurato che è questa la qualifica essenziale della coscienza, occorre sempre un oggetto. Questo oggetto, o meglio il riflesso dell’immagine, è percepito nella mente. Essa ci permette di parlare e discutere, di presupporre ed inventare, di criticare e di accettare, ma è solo per mezzo di questa “parentesi” che è possibile circoscrivere e visualizzare quel che ci interessa.
Nel presente caso la storia che si dipana dalla coscienza è quella dei due modi di vedere. Due possibili destini a confronto. Per convenienza potremmo chiamarli “io e tu” e visto che son due possiamo anche dargli un sesso, allora diciamo che “io” è il maschio ed il “tu” in quanto altro, diviene femmina. Dico così non certo per maschilismo, soltanto perché nell’io c’è la qualità della penetrazione e dell’approfondimento, mentre nel tu c’è la vastità dell’accoglienza di ciò che deve essere conosciuto. In realtà “l’oggetto” non si stanca mai di essere osservato dal “soggetto” che, a sua volta, non fa altro che inventarsi nuovi metodi d’osservazione. Nessuna meraviglia
quindi, che l’oggetto sia spesso identificato con l’Universo intero, ovvero tutto ciò che esiste ed è conoscibile, mentre il “soggetto” (come un indomito ed infaticabile esploratore) si affanna continuamente a cercare diverse visuali e prospettive di investigazione.
Ecco qual’è lo scopo dell’insaziabile penetratore dell’anima.
Per tagliar corto, vi dirò che stavolta l’oggetto esaminato ha la forma di un uccello. Questo uccello è una rondine che si lascia seguire dallo sguardo. Essa è figlia di una figlia di una figlia… dalla figlia di una rondine antica che volò su questa valle, la stessa di quando le rondini non avevano ancora un nome e non c’era nessun uomo ad osservarle. Non di meno la valle era viva. L’acqua di un grande fiume, che allora era il Tevere, aveva già scavato ed eroso le sue forre. Le pareti di tufo erano ricoperte di lecci, aceri, carpini e querce ed il fiume scorreva orgoglioso fra le gole delle tre colline, quelle che avrebbero dovuto ospitare. nei piani del giocatore originario, la sede di una futura civilizzazione: la città Faro di luce, la mitica Arx.
Le tre colline erano già levigate e gonfie di vegetazione e di vita, gli animali vi pascolavano felici e la proto-rondine le sorvolava, proprio come sta facendo la nostra rondine di oggi. Ma a quella sua lontana progenitrice sarebbe toccato di assistere ad un avvenimento che era destinato a cambiare la storia di quest’angolo di mondo. Uno degli ultimi vulcani attivi dell’apparato sabatino si risvegliò: la violenza dei suoi schizzi di cenere, fumo e lapilli oscurò il cielo. La terra tremò, le bocche vulcaniche eruttarono valanghe di lava, la quieta valle si spaccò, si fendette si accartocciò. Per chilometri e chilometri la proto-rondine non riusciva a trovare riparo. Il fiume ribolliva, le acque straripate non riuscivano più a cogliere l’alveo in cui riposare e continuare il percorso verso il mare.
Solo il monte Soratte, gigante di pietra, si ergeva in mezzo al marasma infernale, anch’esso sembrava tremare alla furia del fuoco ma rimase saldo, ebbe pietà di quell’uccello impaurito e del fiume sperduto ed offrì ad entrambi un fianco. Così fu che il Tevere cambiò il suo corso. E fu così che Roma venne poi fondata sui sette colli mentre le tre colline ospitarono una piccolissima “Arx”, cioè Narce, che diverrà poi Calcata, è rimase un minuscolo angolo di paradiso. Ora che, attraverso questa particolare “osservazione” spazio-temporale, ho raccontato il suo segreto la rondine sembra volersi vendicare gettandosi su di me, per tema che io tradisca la sua storia, ma voi avete già capito (e se non vi rimando all’inizio del racconto) che non deve essere mai, mai, mai…

Paolo D’Arpini

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Approccio laico verso la ricerca spirituale

C’è una sostanziale differenza, nell’atteggiamento interiore, se noi
crediamo di aver scelto il compimento di una determinata azione (o
corso di azioni) oppure se noi semplicemente sentiamo di star
affrontando delle contingenze (se rispondiamo cioè allo stimolo degli
eventi in corso). Nel primo caso ci sentiamo responsabili ed abbiamo
precise aspettative verso i risultati del nostro agire, nel secondo
sappiamo che la nostra energia si muove in sintonia con le condizioni
in cui ci troviamo e non calcoliamo di dover adempiere ad un preciso
fine.

E’ evidente che nel primo caso sperimentiamo un senso di costrizione,
delusione o speranza, mentre nel secondo il nostro comportamento molto
somiglia ad un gioco infantile. Sappiamo bene che il distacco e la
quiete interiore sono un fattore importante per la riuscita, tant’è
che al momento di superare un esame facciamo di tutto per sentirci
rilassati, anche se –in verità- lo sforzo stesso di rilassarci non
produce l’effetto desiderato…..Eppure, nel mondo parliamo di
“riuscita” in ben altri termini e cerchiamo sempre di porre l’accento
sul nostro “sforzo personale”.

Ma torniamo a considerare il primo caso, in cui definiamo il nostro
agire una “libera scelta”, agendo come bulldozers e seguendo regole
precise auto-imposte o subite, affermando “questa è la nostra
decisione” e seguendola con fede cieca. Magari non siamo consapevoli
che nel secondo caso potremmo facilmente galleggiare -o nuotare-
seguendo la corrente e che la nostra volontà corrisponderebbe
spontaneamente alla nostra disposizione innata.

Vediamo ora che i risultati ottenuti nel primo caso sono per noi
frutto di preoccupazione e sconforto mentre nel secondo caso,
navigando a vista, ogni risultato è una scoperta, ogni approdo un
arricchimento. Ma –stranezza del caso- sentiamo affermare nel mondo
“…quello è un uomo tutto d’un pezzo e di successo che si è fatto da sé
lottando con le unghie e coi denti…” e per contro “…quella persona è
un sempliciotto che vive in beata innocenza, senza interessi e non sa
nemmeno cosa è bene e cosa è male…”.

Ed a questo punto vorrei chiedervi, non furono cacciati Adamo ed Eva
dal paradiso terrestre proprio per aver assaggiato il frutto del bene
e del male? Eppure di tutta la Genesi questo, che mi sembra il
passaggio più significativo, viene spesso descritto come una favola…
in realtà è un’allegoria dell’uscita dall’armonia dell’unità
primigenia e l’entrata nell’inferno del dualismo e della separazione.

Per fortuna non dobbiamo aspettare molto (né tante .. e neppure una
vita, basta un momento) per capire il trucco dell’illusione, della
proiezione egoica duale, giacché l’unità nella coscienza non è mai
venuta meno, è proprio qui ed ora… e non allora o domani… Paradiso ed
inferno son solo paradigmi della mente, nel divenire.

Si chiedeva Eric Fromm: “essere o avere?”

Paolo D’Arpini

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Spiritualità Laica – Un guru per amico…

Molto spesso parlando con amici del concetto di Spiritualità Laica mi
son trovato a dover difendere quella che è la funzione del Guru in
questo percorso. Solitamente, come spesso dichiarato dai due
Kishnamurti (Jiddu e U.G.), sicuramente esponenti di un filone
“anti-religioso”, si intende che la ricerca spirituale debba essere
indirizzata unicamente all’auto-conoscenza, intendendo che ciò che è
fuori di noi è sicuramente anche dentro di noi, quindi non serve
cercare all’esterno quel che abbiamo già all’interno.

Per conoscere se stessi -come diceva lo stesso Ramana Maharshi- non
c’è bisogno di alcuna istruzione o azione, “il Guru può solo indicare
la strada ma non può darti quello che già sei”. Ma c’è da dire che
per le tendenze inveterate a rivolgersi verso l’esterno non siamo in
grado di affondare e ricongiungerci nel Sé. Perciò sentiamo il bisogno
di un aiuto, perlomeno un esempio, un gesto di simpatia e di amore che
ci incoraggi verso la meta.

La mia esperienza in tal senso, vissuta con Baba Muktananda, un maestro realizzato, può forse risultare significativa per l’accorto lettore.

Il mio rapporto Guru / Discepolo rappresentava una relazione molto “animale”.
Poco o nulla appariva sul piano dell’insegnamento “formale”. Mi sentivo
stimolato ad avvicinarmi a lui con un approccio silenzioso, rivolto
all’osservazione, alla mimica, alle azioni compiute, alla leggerezza,
al calore dimostrato. In effetti era solo un gioco al “nascondino” in
cui spiavo da dietro l’angolo ogni suo gesto e movimento. In alcuni
momenti, quelli più intimi, mi sembrava che la conoscenza mi venisse
trasmessa attraverso queste forze giocose.

Mi viene in mente, per analogia, l’immagine di una mamma gatta che
gioca con il suo micio. Attraverso il gioco, le leccate, le zampate,
il rotolarsi, il ringhiare, il miagolare, la mamma gatta trasmette
conoscenza di sé… Ed il gattino scopre la sua natura felina,
istintivamente, in quel gioco amoroso. Altrettanto è avvenuto per il
risveglio interiore che si è manifestato spontaneamente al contatto
con il mio Guru.

Tutto succedeva senza pensarci, come effetto della presenza nello
stesso luogo e nello stesso tempo, vivendo situazioni comuni. La
conoscenza trasmessa in tal modo è intrisa di varie emozioni, talvolta
ribellione, talvolta affetto, gestualità, sguardi, odori, leggeri
tocchi, persino ironia e senso del ridicolo.. Alla fine il risultato
di quel fantastico rapporto, potrei definirlo d’amore, è la conoscenza
per sottile “induzione” (o intuizione?), per risveglio della memoria
ancestrale.. Il Guru non faceva altro che rappresentare quel che
anch’io sono.. E’ come guardarsi allo specchio, una volta
riconosciuta la propria immagine non serve null’altro da aggiungere..
poiché “l’immagine” dello spirito è permanente, non è mutevole come
quella di un volto che invecchia, lo spirito.. è eternamente giovane.

Questo il mio sentire… Infatti la spiritualità laica è un percorso
che supera ogni concetto di religione e di comportamento, sta al di
fuori degli indirizzi morali ed anche di quelli immorali.

Ciò potrebbe dar adito a dubbi ed anche a fraintendimenti. In effetti
per come è stata descritta e giudicata, soprattutto nelle religioni di
matrice giudeo/cristiana, l’amoralità e l’immoralità vengono spesso
equiparate alla mancanza di coscienza spirituale. Ma questo pensiero è
dovuto al fatto che si è sovrimposta una norma di comportamento,
basata sull’etica e sulla morale religiosa, sullo stato naturale
dell’uomo e sulla sua genuina espressione spirituale.

La spiritualità laica non può essere un “atteggiamento” od il
risultato di un conformarsi alle norme scritte da qualcuno,
spiritualità laica è semplicemente essere consapevolmente quello che
si è, senza vergogna e senza modelli di sorta. Perciò la capacità del
Guru di “insegnare” attraverso la vita quotidiana, in termini
spirituali laici, sta nell’abilità intrinseca di “trasmettere” la
“verità” in tutto ciò che noi manifestiamo o che a noi si manifesta.

Il Guru non è una persona, quindi, o perlomeno non soltanto una
persona visto che comunque può apparire in ogni forma, bensì
l’intelligenza illuminante che ci libera dalle sovrastrutture mentali
e dalle finzioni religiose o morali.

Paolo D’Arpini

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