Riforma boschi e referendum del 4 dicembre 2016 – Tutte le ipotesi sul “No”
Il voto sulla riforma Boschi si avvicina ed il mondo politico, premier in testa, è totalmente assorbito dalla campagna referendaria. Non spenderemo neppure una parola nel tentativo di influenzare o mobilitare gli italiani: abituati a giocare d’anticipo, diremo soltanto che il “no” alla riforma Boschi vincerà, e lo farà con un margine superiore a quello previsto da qualsiasi sondaggio: 60% contro il 40% per il “sì”. Alla base del nostro ragionamento c’è il referendum abrogativo dell’aprile 2016, che portò alle urne 16 milioni di persone, espressesi all’85% contro il governo: per Matteo Renzi, “il fuoriclasse” della politica (De Benedetti dixit) che ha trasformato il referendum in un plebiscito sulla sua persona, è impossibile anche solo pareggiare quella cifra.
Il “no”? Vincerà col 60%
Vaga, il premier Renzi, inquieto e spaesato, aspettando il fatidico 4 dicembre: l’errore di aver trasformato il referendum sulla riforma Boschi in un plebiscito, un sì o un no sull’azione di governo, gli ha tolto ormai da mesi il sonno. La sconfitta di Hillary Clinton, la candidata per cui il presidente del Consiglio (unico in Europa) si era speso pubblicamente, gli sottrae poi qualsiasi appiglio cui aggrapparsi il giorno dopo il referendum, quel fatidico 5 dicembre che segnerà, se non la fine, perlomeno una durissima battuta d’arresto alla carriera del premier.
Ci siamo divertiti a paragonare Matteo Renzi all’informatore della polizia descritto con grande maestria da Leonardo Sciascia ne “Il giorno della civetta”: il confidente Parrinieddu che, dopo aver passato una soffiata ai carabinieri, si aggira confuso e senza meta, dilaniato dal dubbio se fuggire o farsi ammazzare. “E tutta la giornata passò ora vagando per le strade ora precipitosamente rincasando, una decina di volte deciso a chiudersi in casa e altrettante a farsi ammazzare, finché nell’ultima decisione di nascondersi, sulla porta di casa, due infallibili colpi di pistola lo colsero”.
Mai paragone fu più appropriato, perché nel comportamento Renzi-Parrinieddu è ben visibile il desiderio di scongiurare disperatamente la fine ed allo stesso tempo la volontà di accelerare l’epilogo ormai scontato, così da porre fine alle sue sofferenze. Renzi vuole scongiurare a tutti i costi la fine, e quindi promette tagli dell’Iva, tagli dell’Irpef ed aumenti alle pensioni; ma allo stesso tempo cerca quei “due infallibili colpi di pistola” che gli diano sollievo e, stando alle ultime indiscrezioni1, starebbe addirittura meditando le dimissioni prima del 4 dicembre: forse per cercare di ribaltare l’esito del referendum o forse, ed è più probabile, per alleviare il trauma della sconfitta. “Mi sono dimesso. Non mi avete fatto dimettere” sarebbe il ragionamento di Renzi se gettasse la spugna prima del referendum. “Mi sono suicidato. Non mi avete ammazzato” avrebbe detto Parrinieddu ne “Il giorno della civetta”.
In effetti, gli ultimi sondaggi resi disponibili danno scarse possibilità di vittoria al premier, poche chance di strappare quel “sì” alla riforma Boschi che consenta al suo governo (e sopratutto alla sua carriera) di sopravvivere al 4 dicembre: “Referendum, ultimi sondaggi: No ancora avanti. Ma è record di indecisi: 12 milioni” titolava l’Espresso il 17 novembre2 ; “Referendum, avanti il No. Ma sul merito italiani favorevoli” replicava il Sole 24 ore, secondo cui “nel nostro caso il No è al 34 %, il Sì al 29 % con un 37% tra incerti e astenuti”; “Ultimo giorno di sondaggi: il No ancora avanti di otto punti” sosteneva la Stampa il 18 novembre, prospettando una vittoria del “no” col 54% voti.
Da allora i sondaggisti tacciono, o meglio, continuano a sfornare (costose) simulazioni di voto, riservate però a pochi (munifici) occhi: quelli di banchieri, grandi speculatori, responsabili delle campagne elettorali, vertici dei partiti, etc. etc. Il volgo profano deve accontentarsi così di un succedaneo dei sondaggi, quelle “voci dal conclave” pubblicate sul sito Youtrend.it, secondo cui “San Norberto” sarebbe ancora in vantaggio sullo sfidante “San Simplicio”, ma in misura sempre minore (52,3-47,7), tanto che “a taluni esperti di vicende ecclesiali non sfugge tuttavia che proprio le preferenze dei nunzi all’estero potrebbero risultare decisive”:3 un voto così combattuto, quindi, da rendere decisivo il contestatissimo voto degli italiani all’estero. Sarà vero?
A pochi giorni dal fatidico 4 dicembre, si pone il dilemma se impiegare le nostre energie per influenzare (con scarsi risultati) il voto, illustrando le ragioni del “no”, oppure se adoperarle per anticipare il risultato dell’appuntamento elettorale: abituati a giocare d’anticipo ed amanti del pericolo, imbocchiamo, è superfluo dirlo, la seconda strada.
Ed andiamo ancora, in un certo senso, contro i responsi dei grandi media e dei più blasonati sondaggisti: diciamo, infatti, che il “Sì” non solo non è in recupero, ma sarà addirittura annichilito dal “no”, con una clamorosa bocciatura della riforma Boschi, 60% contro 40%. Le possibili dimissioni anticipate di Matteo Renzi, che forse dispone di sondaggi più veritieri di quelli pubblicati dalla stampa, sono quindi giustificate: per il premier si prospetta non una sconfitta di misura, ma una vera Caporetto elettorale. Un “no” che staccherebbe di 20 punti il “sì”, scuotendo l’esecutivo alle fondamenta.
Come giungiamo a questo risultato in netta controtendenza ai sondaggisti che pronosticano una vittoria del “no” di 4-8 punti?
Il principale errore che commettono gli esperti del settore, a nostro giudizio, è chiedere ad un campione di elettori come intende votare al quesito referendario: “sì, no, non so”, senza alcuna sicurezza che “quell’intenzione” si trasformi poi in una scheda depositata nell’urna o in astensione.
È come se le società di calcio, per valutare se costruire uno stadio di proprietà, sguinzagliassero i sondaggisti per la città domandando: “lei, per quale squadra tifa?”. Molto più saggio, a nostro avviso, è lavorare sulle serie storiche, sui dati cioè accumulati nel tempo: “quanti sono gli abbonati della scorsa stagione?”, “qual è il tasso di riempimento dei vecchi stadi?”, “come si è piazzata la squadra di calcio in campionato?”, sono le domandare che le società di calcio dovrebbero porre.
Per anticipare l’esito del 4 dicembre, disponiamo di un preziosissimo precedente: il referendum abrogativo del 17 aprile 2016, meglio noto come “referendum sulle trivelle”.
Sebbene il quorum fu mancato (l’affluenza fu pari al 31% degli aventi diritto al voto), quasi 16milioni di persone4 di recarono ai seggi, esprimendosi all’85,85% per l’abrogazione della legge in esame. Fu una consultazione già molto politicizzata e, particolare fondamentale ai fini della nostra analisi, “contro le trivelle” e, di conseguenza, contro il governo Renzi, si mobilitò una parte importante dello scacchiere politico che ora sostiene il “no” al referendum: M5S, sinistra PD(vedasi il governatore della Puglia, Michele Emiliano) Forza Italia, Lega Nord, Fratelli d’Italia, etc. etc.
Allora il premier Renzi invitò all’astensione, così da far mancare il quorum (“Renzi: l’astensione al referendum è sacrosanta e legittima”5), ma anziché cantare vittoria (“Referendum Trivelle, Matteo Renzi sfoggia la vittoria e ora punta all’en plein guardando amministrative e riforme”6titolava pochi giorni dopo l’Huffington Post), il presidente del Consiglio avrebbe dovuto preoccuparsi di quei 13 milioni di elettori, recatesi alle urne con scarse possibilità di vittoria e, in molti casi, per dire “no” al suo esecutivo. Un forza capace di mandarlo a tappetto, se qualcuno avesse tagliato il “lacciolo” del quorum.
Il presidente del Consiglio si sarà preoccupato allora? Improbabile. Non è del personaggio (né di buona parte della classe dirigente italiana) gettare lo sguardo oltre i 30 giorni.
Il referendum sulla riforma Boschi è, in un certo senso, una “nemesi” della consultazione sulle trivelle: Renzi, infatti, si scontra grossomodo (qualcuno, ma non in molti, non seguirà infatti le indicazioni di voto dei partiti) con quei 13 milioni di “no” del 17 aprile. Il quesito decisivo è: riuscirà il premier a portare una massa di elettori capace di eguagliarli e superarli? La risposta è: in bocca al lupo!
Sappiamo che, rispetto al referendum sulle trivelle, ogni voto aggiuntivo sarà quasi certamente a favore di Renzi, che oggi chiama alle urne anziché all’astensione, ma non certo il 100% dei nuovi voti: alcuni votanti, pensiamo agli elettori di Forza Italia e della Lega Nord, forse si erano astenuti il 17 aprile perché poco sensibili al tema del trivelle, mentre si recheranno invece alle urne per il referendum votando “no”, non tanto alla riforma costituzionale, quanto piuttosto alla politica migratoria ed alle ricette economiche del governo. Ne consegue, quindi, che non ogni voto aggiuntivo rispetto al 17 aprile sarà a favore della riforma Boschi.
Si possono quindi avanzare tre ipotesi: il 70% dei “nuovi voti” sarà a favore di Renzi, 80% favorevole e, infine, (estremizzando l’analisi) ben il 90% si esprimerà per il “sì”.
Ci manca, a questo punto, solo più un dato decisivo: quale sarà l’affluenza? È quasi certo che i 13 milioni di “no” del 17 aprile torneranno alle urne: più alta sarà l’affluenza, data le nostre premesse, e maggiori saranno i voti per il “sì”, aumentando così le possibilità di salvezza per il premier. Chi consiglia Matteo Renzi ne è consapevole, perché pochi giorni fa Renzi ha detto: “Serve il 60% di affluenza e 15 milioni di voti”7.
Affluenza al 60%? Considerato che nei referendum costituzionali del 2001 e 2006 si fermò rispettivamente al 34% ed al 52% è tanto. Noi comunque gliela concederemo, dimostrando però che, anche qualora si recasse alle urne il 60% di 51 milioni di elettori8, le possibilità di vittoria di Renzi sarebbero risicatissime.
Ipotizzeremo quindi tre scenari (affluenza al 50%, 55% e 60%) da incrociare con le tre sopracitate ipotesi (“nuovi voti” per Renzi al 70%,80% e 90%).
Scenario uno: affluenza al 50% (16 mln di elettori del referendum trivelle, più 10 mln di nuovi elettori)
Qualora alle urne si recassero alle urne “solo” 26 milioni di persone, la sconfitta di Renzi sarebbe matematica ed il “no” trionferebbe con percentuali che vanno dal 56% al 64%.
Scenario due: affluenza al 55% (16 mln di elettori del referendum trivelle, più 12 mln di nuovi elettori)
Questo è, a nostro avviso, lo scenario più realistico, quello che “contiene” il futuro esito del referendum del 4 dicembre. Alle urne si recano 28 milioni di italiani, quasi tre in più del referendum del 2006, già altamente politicizzato e giocato in chiave “anti-berlusconiana”. 16 milioni voteranno come il referendum del 17 aprile e 12 milioni di nuovi elettori si recheranno alle urne, esprimendosi al 70% a favore di Renzi ed al 30% contro. Esito finale: il “no” alla riforma Boschi vince col 61,86% dei voti.
Si noti che, in questo scenario, anche se il 90% dei nuovi elettori votasse a favore della riforma costituzionale, il referendum sarebbe comunque bocciato.
Scenario tre: affluenza al 60% (16 mln di elettori del referendum trivelle, più 15 mln di nuovi elettori)
Questo è lo scenario “auspicato” da Renzi (“Serve il 60% di affluenza e 15 milioni di voti”) perché contiene, non a caso, l’unica possibilità di salvezza per il premier. 31 milioni di italiani si recano alle urne: i 16 del 17 aprile scorso, cui si sommano 15 milioni di nuovi elettori, che votano al 90% per il “sì”. Ne segue che la riforma Boschi supera il vaglio degli elettori con il 50,4% dei voti. È uno scenario realistico? Assolutamente no e se i nuovi votanti si esprimessero per il “sì” solo nella misura dell’80%, la vittoria finale spetterebbe ancora al fronte del “no” di larga misura.
Concludendo, il premier Matteo Renzi va incontro ad una sconfitta certa, che non sarà il tiepido 52-48 o 55-45 pronosticato dalla maggior parte dei sondaggisti, bensì un netto ed inequivocabile 60-40 che sconquasserà il suo governo ed il Parlamento, obbligando Sergio Mattarella, quasi certamente, ad indire elezioni anticipate, nonostante i consigli dell’illuminato Mario Monti ed i moniti dell’Economist.
Il premier-cazzaro, l’enfant prodige della politica italiana che molti commentatori (già in parte dileguatesi) decantavano fino a poco tempo fa (De Benedetti: “Renzi? Un vero fuoriclasse: empatico come Fanfani, abile come Craxi”9), ha in sostanza consentito, con una mossa da abilissimo stratega, a tutti i suoi nemici di coalizzarsi (la cosiddetta “accozzaglia”) e di convergere in buon ordine verso un’unica battaglia campale (il referendum del 4 dicembre), dove potranno infliggergli una clamorosa sconfitta nel più semplice dei modi: una scheda di carta per esprimere un “no” alla sua riforma costituzionale, al suo governo, alla sua gestione del potere.
Osannato dalla stampa, celebrato da Barack Obama, coccolato dall’OCSE e dall’FMI, Renzi ha creduto a lungo di essere così forte da potersi imporre sul resto delle forze politiche e di farsi eleggere padre-padrone della nuova Repubblica italiana, con “sì” degno dei plebisciti di Napoleone Bonaparte.
Il referendum sulle trivelle del 17 aprile avrebbe dovuto essere il primo campanello d’allarme: 16 milioni di persone si recarono alle urne per votare contro il governo e, se non ci fosse stato il quorum, sarebbero riusciti già a farlo cadere allora. La campagna per “smontare” il plebiscitosulla sua persona, avrebbe dovuto già cominciare la scorsa primavera, non a settembre: vistosi soccombere, Renzi ha prima cercato di separare le sue sorti dal referendum, poi ha impostato la campagna referendaria in chiave “populista” ed “anti-sistema” ed infine, disperato, ha deciso di “ripersonalizzare” al massimo l’appuntamento in queste settimane, dipingendo l’appuntamento del 4 dicembre come un mezzogiorno di fuoco tra sé ed il resto dei partiti.
Se dovesse capitolare dopo aver raccolto 12 milioni di “sì”, i 10 milioni voti presi dal PD alle politiche del 2013 più un paio raccattati a destra, dovrebbe già reputarsi fortunato.
È un bene che la riforma Boschi affidi più poteri a questo “vero fuoriclasse” della politica, che non sa neppure usare il pallottoliere per contare i voti?
È una buona idea accentrare la gestione dello Stato nelle mani di un “vero fuoriclasse”, che si è infilato da sé in un vicolo cieco?
“NO”.
Federico Dezzani