Recep Tayyip Erdoğan, il saggio, ha parlato all’ONU ed ha detto che…. – Mentre il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, risponde con nuovi insediamenti in Palestina…

Recep Tayyip Erdoğan, il saggio, ha parlato all’ONU ed ha detto che….

Il 23 settembre 2011 il premier turco Erdoğan ha parlato all’assemblea dell’ONU, ha dato messaggi al mondo sul riconoscimento della Palestina, sulle relazioni turco-israeliane, la crisi di trivellazione, e sulla tragedia in Somalia. Erdoğan in una parte del suo discorso ha riferito alla richiesta della Palestina all’ONU come un paese indipendente e ha espresso di appoggiare il riconoscimento del paese dall’ONU. “Turchia sostiene incondizionatamente il riconoscimento della Palestia all’ONU” ha detto premier Erdoğan.
Erdoğan nel suo discorso ha criticato la politica israeliana sulla Palestina e anche l’ONU che rimane disinteressato a questa politica israeliana.
“E’ stato l’Israele a usare forza eccessiva e anche applica sanzione” ha detto Erdoğan e ha aggiunto ” sono nette le nostre aspettative dall’Israele: chiedere scusa, pagare risarcimento alle famiglie delle vittime del blitz, e terminare il blocco su Gaza. Finchè Israele non avanza passi concreti per quanto riguarda le nostre aspettative, non cambierà il nostro approccio” ha concluso Erdoğan.
Premier Erdoğan ha ribadito che la Turchia non ha nessuna questione con il popolo israeliano e la questione deriva dal governo israeliano.
Premier Erdoğan ha riferito anche alla crisi di trivellazione tra Turchia e Cipro del Sud.
Erdoğan ha ribadito che si deve impedire le iniziative “provocative” di Cipro del Sud ” altrimenti la Turchia farà quello che necessario”.
Erdoğan davanti all’assemblea dell’ONU ha criticato l’approccio dell’ONU.
“Nazioni unite, oggi, devono rinnovare la sua visione basata sulla protezione dei diritti di tutta l’umanità ma non sugli interessi di alcuni paesi” ha detto Erdoğan.
Erdoğan nell’ultima parte del suo discorso ha attirato l’attenzione alla tragedia in Somalia e nominato la tragedia come la faccia nera dell’opinione pubblica internazionale.

(Fonte UTC)

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Intervento di Tommaso di Francesco

Il bimbo cattivo a cui tutto è concesso

Ecco la riprova della disponibilità alla pace di Benjamin Netanyahu. Il governo di estrema destra d’Israele ha annunciato martedì la costruzione nei territori occupati di un mega-insediamento di 1.100 abitazioni per nuovi coloni ebrei a Gilo, nella zona occupata di Gerusalemme. A nemmeno 72 ore dal suo discorso alle Nazioni unite con il quale il premier israeliano respingeva la richiesta di riconoscimento dello stato di Palestina per aprire «invece» ai cosiddetti «negoziati diretti, perché prima la pace poi lo stato».
Una provocazione unilaterale che precipita sulle difficili trattative avviate dopo l’assise dell’Assemblea generale al Palazzo di Vetro e che intanto ridicolizza la diplomazia internazionale. Israele resta – fino a quando? – il bambino cattivo e impunito che può fare quello che vuole, anche aprire l’anticamera dell’inferno di una nuova guerra.
«Sono mille e cento no alla pace, questi sono i nuovi insediamenti annunciati da Tel Aviv», ha dichiarato il portavoce palestinese Saeb Erekat. Peoccupata e come al solito impotente, anche la presa di posizione della Casa bianca, «è controproducente», l’ha definita il portavoce di Barack Obama, che però prepara il veto qualora, non sia mai, al Consiglio di sicurezza «rischiasse» di passare la proposta dello stato di Palestina. Condanna anche la responsabile esteri dell’Ue Ashton, mentre tacciono i mediatori, storicamente assenti, del «Quartetto» che dovrebbe incaricarsi della nuova fase di trattative.
E più si allontana questa prospettiva, più si allontana la pace. Più la Palestina, attraversata da Muri che la dividono, divisa tra Cisgiordania occupata militarmente e Gaza sotto assedio, defraudata della terra e delle risorse a cominciare dall’acqua, con le colture dei contadini distrutte e sradicate, la popolazione sfamata dagli aiuti dell’Unrwa-Onu, è ridotta ogni giorno di più a un colabrodo con le centinaia di insediamenti di coloni ebrei che si moltiplicano cancellando la caratteristica necessaria ad uno Stato, vale a dire la continuità territoriale. Eppure tutti sono consapevoli del fatto che precondizione per ogni passo avanti tra palestinesi e israeliani è il congelamento degli insediamenti. Israele dice ancora una volta no, proprio nel mezzo delle trattative sullo Stato di Palestina. E così facendo allontana pericolosamente da sé la prospettiva tanto desiderata della sicurezza. Perché quando sparirà la possibilità della definizione internazionale della condizione palestinese, ci sarà solo spazio alla rivolta. Con la risposta che prepara la propaganda dell’ultradestra razzista israeliana di Sos-Israel: sparare su chi lancia sassi. Seguendo la storica pratica della repressione della prima Intifada. Ma siamo ormai nella condizione del Medio Oriente diventato, più che mai un vulcano attivo, un terremoto inarrestabile.
A questo punto, più che in ogni altro momento, la questione ci riguarda. Chi marcia per la pace e non vuole certo rappresentare uno stanco rituale annuale, non può stare a guardare. E chi si unisce contro la crisi e porta in piazza la protesta sociale degli «indignati», non può non dare voce alla disperazione palestinese, non può dimenticare che, dentro la crisi globale, anche la pace è un bene comune. E che l’indignazione del Medioriente e dei palestinesi conta quanto se non più della nostra.

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