Flagelli d’Italia (tratti da Il Gran Pandemonio di Adriano Colafrancesco)

Letta per episodi, almeno quelli salienti e più rilevanti dal dopoguerra a oggi, la storia d’Italia è nota più o meno a tutti. Quello che spesso sfugge però – ed è possibile cogliere solo zoomando alla rovescia per vedere nell’insieme la cronologia degli eventi – è l’invisibile filo conduttore che accomuna i fatti nella sorte tragica toccata a non poche autorevoli personalità del nostro paese.

Soprassedendo per brevità sul più ampio quadro di stragi e attentati che hanno percorso in lungo e in largo tutto lo stivale, ci soffermeremo, sia pur brevemente, sulle vicende di Enrico Mattei, Aldo Moro, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Enrico Mattei (Acqualagna, 29 aprile 2906 – Bascapè, 27 ottobre 1962)
Sotto la sua presidenza l’Eni negoziò rilevanti concessioni petrolifere in Medio Oriente oltre a un importante accordo commerciale con l’Unione Sovietica, grazie all’intermediazione di Luigi Longo, suo amico durante la guerra partigiana e più tardi segretario del Partito Comunista Italiano.

In tale scenario introdusse il principio per il quale i Paesi proprietari delle riserve dovevano ricevere il 75% dei profitti derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti. Iniziative tutte che contribuirono a rompere l’oligopolio delle Sette Sorelle, che allora dominavano l’industria petrolifera mondiale.

Morì nel 1962 in un misterioso incidente occorso al suo aereo personale, nei pressi di Bascapè. Le indagini svolte dall’Aeronautica Militare Italiana e dalla Procura di Pavia sull’ipotesi di attentato, si chiusero inizialmente con un’archiviazione “perché il fatto non sussiste”. In seguito, nel 1997, il ritrovamento di reperti che potevano ora essere analizzati con nuove tecnologie, fece riaprire le indagini giudiziarie. Queste stavolta si chiusero con l’ammissione che l’aereo “venne dolosamente abbattuto”, senza però poterne scoprire né i mandanti, né gli esecutori.

Nel 2012 una sentenza di un processo collegato, quella sulla scomparsa del giornalista Mauro de Mauro che indagava sul fatto, ha riconosciuto ufficialmente che Mattei fu vittima di un attentato. Chiunque sia stato il mandante, pare ormai alquanto probabile che l’esecuzione sia stata affidata a esperti locali, e che la casalinga mafia abbia quindi prestato il suo braccio.

Vale la pena chiudere questa breve scheda con parole dello stesso Mattei, tratte da un documento televisivo, dunque dalla sua viva voce, in una intervista televisiva del dicembre 1959:
“Un giorno a dicembre (1950, ndr) fui chiamato a incontrarmi con uno dei sette grandi (Mr Arnold, Holland della Shell, ndr) – uno dei grandi: hanno un bilancio che è quasi pari al bilancio dello stato italiano – a Montecarlo, dove mi chiamò.

Tutta la collaborazione riguardava l’Italia, tenere sui prezzi, “guadagniamo tutti di più”, che è proprio il contrario di quello che devo fare io. Io sono l’esponente di un’azienda di stato e devo cercare di portare al consumatore tutto quello che è possibile.

E io gli dissi: “Ma sa, in Italia avete finito di poter fare la politica vostra, d’ora in avanti la faremo noi”. Mi disse: “Che cosa vuol fare in Tunisia?”. “Guardi in Tunisia noi vogliamo costruire una raffineria”. Dice: “Voi non farete la raffineria, perché la faremo noi. Noi con una delle grandi società del cartello, un’altra delle sette sorelle”.

E io molto umilmente gli chiesi: “Cosa ne pensa se invece di farla in due, la si facesse in tre?”. “No”, mi rispose! E allora io: “Da questo momento – tirai fuori dalla tasca la matita, avevo altri argomenti da discutere, lo guardai, li cancellai – ho l’impressione che non abbiamo più niente da dirci. Però lei il colloquio di oggi se lo ricorderà per tutta la vita”.

Aldo Moro (Maglie, 23 settembre 1916 – Roma, 9 maggio 1978)
Negli anni settanta e soprattutto dopo le elezioni del 1976, Moro concepì l’esigenza di dar vita a governi di “solidarietà nazionale”, con una base parlamentare più ampia comprendente anche il PCI. Ciò rese Moro oggetto di aspre contestazioni: i critici lo accusarono di volersi rendere artefice di un secondo “compromesso storico”, più clamoroso di quello con Nenni, in quanto prevedeva una collaborazione di governo con il Partito Comunista di Enrico Berlinguer, che ancora faceva parte della sfera d’influenza sovietica.

Aldo Moro fu rapito il 16 marzo ’78 e assassinato il successivo 9 maggio dalle Brigate Rosse. Il 16 marzo 1978, giorno della presentazione del nuovo governo, il quarto guidato da Giulio Andreotti, la Fiat 130 che trasportava Moro dalla sua abitazione nel quartiere Trionfale zona Monte Mario di Roma alla Camera dei deputati, fu intercettata da un commando delle Brigate Rosse all’incrocio tra via Mario Fani e via Stresa.

Gli uomini delle Brigate Rosse uccisero, in pochi secondi, i cinque uomini della scorta e sequestrarono il presidente della Democrazia Cristiana. Dopo una prigionia di 55 giorni in un covo di via Camillo Montalcini 8, le Brigate Rosse decisero di concludere il sequestro uccidendo Moro. Il corpo di Aldo Moro fu ritrovato dentro il portabagagli di una Renault 4 rossa – rubata il 2 marzo 1978 a un imprenditore (Filippo Bartoli) nel quartiere Prati, due settimane prima dell’eccidio di via Fani – il 9 maggio a Roma, in via Caetani, emblematicamente vicina sia a piazza del Gesù (dov’era la sede nazionale della Democrazia Cristiana), sia a via delle Botteghe Oscure (dove era la sede nazionale del Partito Comunista Italiano).

Papa Paolo VI, il successivo 13 maggio, officiò una solenne commemorazione funebre pubblica per la scomparsa di Aldo Moro, amico da sempre e suo alleato, a cui parteciparono numerose personalità politiche italiane e che venne trasmessa in televisione. Questa cerimonia funebre venne celebrata senza il corpo dello statista, per esplicito volere della famiglia, che non vi partecipò, rifiutando il funerale di Stato e scegliendo di svolgere le esequie in forma privata presso la chiesa di San Tommaso di Torrita Tiberina

Su tutto questo, senza formulare altri giudizi e volendo fondarci solo sull’autorevolezza delle fonti, vale la pena di dare spazio alle dichiarazioni dell’onorevole Gero Grassi, parlamentare membro della Commissione d’Inchiesta sul Caso Moro.

“Le relazioni della Commissione Moro, approvate da Camera e Senato, ribaltano la verità giudiziaria e storica affermata in questi anni. In primo luogo la ricostruzione dell’eccidio di via Fani vede almeno 20 persone impegnate sulla scena del delitto mentre le Brigate Rosse, nelle evoluzioni delle loro bugie, sono arrivate al massimo a 9… Nel novembre del 2014 il Procuratore alla Repubblica di Roma Ciampoli ha scritto che è ormai certo che in Via Fani, insieme alle Brigate Rosse, vi fossero elementi dei servizi segreti deviati dello Stato, uomini della mafia romana (Banda della Magliana) e uomini dei servizi segreti europei che avevano interesse per lo meno a creare caos in Italia (…)

Tutto ciò ci induce a ritenere che in via Fani vi fossero “anche” le Brigate Rosse. Il termine “anche” è usato in maniera ironica e significa che per 39 anni una parte di classe politica, magistratura, forze dell’ordine e del mondo del giornalismo italiano, ha sostenuto, sbagliando, che gli unici responsabili erano stati i brigatisti rossi.

Giovanni Falcone, Palermo, 18 maggio 1939 – Palermo, 23 maggio 1992
Giovanni Falcone venne assassinato in quella che comunemente è detta strage di Capaci, il 23 maggio 1992, mentre stava tornando, come era solito fare nei fine settimana, da Roma, insieme alla moglie Francesca Morvillo, che morì con lui nella circostanza, insieme a tre agenti di scorta.

I punti oscuri della Strage di Capaci.
Così in un’intervista il pm Nino Di Matteo:
“La verità che è stata accertata, mi sento di dirlo con cognizione di causa, è ancora una verità parziale (…) La lettura analitica delle sentenze che sono state emesse ci porta a ritenere che è stato possibile – ma mi sento di dire altamente probabile – che insieme agli uomini di Cosa nostra abbiano partecipato alla strage, nel momento del mandato stragista, organizzazione ed esecuzione, anche altri uomini estranei alla mafia”.

Domande senza risposta:
·         il pentito Gioacchino La Barbera dice: “C’era un uomo, durante la preparazione della strage di Capaci, che non avevo mai visto prima. Non era dei nostri”. Chi era quell’uomo?

·         come facevano i boss a conoscere con precisione l’arrivo di Falcone a Punta Raisi?

·         chi c’era a bordo dell’aereo misterioso che sorvolava il tratto Palermo – Punta Raisi nel giorno della strage? (Testimoni lo raccontano in più fasi processuali),

·         perché uomini in mimetica si trovavano sul tetto della Mobiluxor, il mobilificio a ridosso dell’autostrada A29. C’è anche questo nei racconti, resi in più fasi processuali, di alcuni testimoni.

·         che fine hanno fatto le due agende e il computer di Falcone che si trovavano nella macchina?

·         come mai le foto scattate da Antonio Vassallo, assessore comunale a Capaci, subito dopo l’esplosione, furono immediatamente sequestrate da due agenti e non arrivarono mai ai pubblici ministeri? (chi aveva ritratto in quelle immagini?)

 
Paolo Borsellino, Palermo, 19 gennaio 1940 -Palermo, 19 luglio 1992.
Il 19 luglio 1992, dopo aver pranzato con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si recò insieme alla sua scorta in via D’Amelio, dove vivevano sua madre e sua sorella Rita. Alle 16:58 una Fiat 126 imbottita di tritolo, che era parcheggiata sotto l’abitazione della madre, detonò al passaggio del giudice, uccidendo oltre a Borsellino anche i cinque agenti di scorta.

I punti oscuri della strage di via D’Amelio.
Antonino Caponnetto che subito dopo la strage ebbe a dire, sconfortato, “tutto è finito…”, intervistato anni dopo da Gianni Minà, ricordò che:
 
“…Paolo aveva chiesto alla questura – già venti giorni prima dell’attentato – di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante l’abitazione della madre. Ma la domanda era rimasta inevasa. Ancora oggi aspetto di sapere chi fosse il funzionario responsabile della sicurezza di Paolo, se si sia proceduto disciplinarmente nei suoi confronti e con quali conseguenze”.

Salvatore Borsellino, fratello di Paolo Borsellino, parla esplicitamente di “strage di Stato”.
“Perché quello che è stato fatto è proprio cercare di fare passare l’assassinio di Paolo e di quei ragazzi che sono morti in via D’Amelio come una strage di mafia. (…) Hanno messo in galera un po’ di persone – tra l’altro condannate per altri motivi e per altre stragi – e in questa maniera ritengono di avere messo una pietra tombale sull’argomento. Devo dire che purtroppo una buona parte dell’opinione pubblica, cioè quella parte che assume le proprie informazioni semplicemente dai canali di massa – televisione e giornali – è caduta in questa chiamiamola “trappola (…) Quello che noi invece cerchiamo in tutti i modi di far capire alla gente (…) è che questa è una strage di stato, nient’altro che una strage di stato. E vogliamo far capire anche che esiste un disegno ben preciso che non fa andare avanti certe indagini, non fa andare avanti questi processi, che mira a coprire di oblio agli occhi dell’opinione pubblica questa verità, una verità tragica perché mina i fondamenti di questa nostra repubblica. Oggi questa nostra seconda repubblica è una diretta conseguenza delle stragi del ’92”.

Tratto da Il Gran Pandemonio di Adriano Colafrancesco

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