L’impero di mezzo globalizzato e la “deregulation” americana spezzata

Poco tempo fa, a Davos, abbiamo assistito alla “performance” di Xi Jin Ping, Presidente della Cina, stavolta autoinvestitosi del curioso ruolo di alfiere della Globalizzazione senza se e senza ma. Una tiritera buttata lì, tutta d’un fiato, sulla ineludibile necessità, sui vantaggi e su tutti i meravigliosi annessi e connessi del Nuovo Ordine Globale, grazie a cui la Cina, producendo a costo quasi-zero, può impunemente piazzare le proprie porcheriole (che qualcuno ha pure il coraggio di definire “mercanzie”, sic!) sui mercati di mezzo mondo, guadagnando cifre astronomiche e permettendo alla propria economia ritmi di crescita altrove sconosciuti.

Questo, senza parlare della penetrazione della Cina in tutte quelle aree geoeconomiche strutturalmente più deboli, come quella rappresentata dall’Africa sub sahariana, dove, in cambio di lauti compensi ai governi o ai potentati locali, intere regioni del continente nero, vengono stravolte ad uso e consumo del gigante asiatico. Il tutto, coronato dall’acquisto massiccio di valuta estera (dollaro USA) o di titoli del debito pubblico (sempre USA), con il supporto di banche e fondi sovrani vari. Logicamente, tutto questo non può che fare della Cina un entusiasta alfiere del Globalismo, nonostante una sfacciata e poco coerente aderenza ad una versione riveduta e corretta di marxismo, quale quella, a suo tempo, propalata da Mao.

Meno logico, invece, che a farsi paladino dell’anti globalismo sia proprio il rappresentante di una nazione che, della Globalizzazione e del Nuovo Ordine Mondiale, ha fatto il proprio vessillo ideologico e programmatico e cioè Donald Trump, neoeletto Presidente USA. Che il sistema democratico più collaudato al mondo abbia ceduto ad una tentazione golpista? Oppure al potere alla Casa Bianca, a furor di popolo, è stato mandato un rivoluzionario, un fomentatore, nel ruolo di vero e proprio eversore e scompiglia-carte dei progetti dei piani alti?

A ben guardare però, le cose stanno un po’ differentemente da quanto potrebbe, a prima vista, sembrare. Punto primo. Non si diventa Presidente-Imperatore Usa senza quei lasciapassare e quelle garanzie determinate da precisi accordi di lobbie, che fungono da garanzia e da lasciapassare per qualunque aspirante al trono. Non per niente, i posti-chiave della neonata amministrazione Usa sono tutti detenuti da personaggi oltremodo legati al mondo della finanza e dell’economia. Si va dal comitato di consiglieri presidenziali formato dal “patron” di Tesla, Elon Musk e di Uber, Travis Kalanick e da altri 16 grandi imprenditori provenienti dal mondo degli affari (Trump’s Strategic e Policy Forum), guidato dal n.1 di Blackstone, il più ricco hedge fund del mondo, Steve Schwarzman, di cui fa parte anche l’Ad di Pepsi Cola, Indraa Nooy come riferisce Business Insider Uk.

A guidare la strategica carica di Ambasciatore in Israele, sarà, invece, David Friedman. Avvocato specializzato in diritto fallimentare, ha rappresentato Trump nei fallimenti di alcuni suoi hotel ad Atlantic City. Friedman è su posizioni estremiste, considerato molto vicino ai gruppi che sostengono l’espansione degli insediamenti nella West Bank, arrivando a dare il massimo sostegno alla American Friends of Bet El Institutions, un’organizzazione che sostiene con particolare impegno un insediamento illegale di coloni appena fuori Ramallah nei territori occupati della Cisgiordania. Rex Tillerson, il nuovo Segretario di Stato, è amministratore delegato di Exxon Monil, il colosso petrolifero presente in 50 Paesi, Russia in primis, con la quale ha una joint venture con Rosneft. Steven Mnuchin, ora Segretario al Tesoro, è stato direttore finanziario della campagna elettorale di Donald Trump, nonché ex partner di Goldman Sachs e produttore cinematografico, mentre, Wilbur Ross, ora Segretario al Commercio, è stato presidente e strategist numero uno della società di private equity W.L. Ross & Co, noto alle cronache per avere comprato aziende in crisi, poi ristrutturate e vendute. Questo tanto per ribadire il concetto sulla non-casualità dell’elezione di Trump che, anzi, sembra invece esser frutto di una precisa istanza strategica. Significativo il fatto che, il neo eletto Presidente USA, tra le sue prime mosse, abbia ricevuto i rappresentanti delle più importanti sigle sindacali Usa, per rassicurarle sul proposito, poi immediatamente attuato, di annullare i vari accordi internazionali sul Libero Commercio trans nazionale che, permettendo la delocalizzazione delle varie industrie, ha fatto chiudere non poche fabbriche, mandando a spasso migliaia di lavoratori americani.

Qui non si tratta di un’improvvisa conversione sulla Via di Damasco, da parte delle varie lobbies statunitensi e delle rispettive leadership, d’improvviso passate dal liberismo duro e puro all’antiglobalismo antagonista. Nulla di tutto questo: piuttosto ci troviamo di fronte ad una presa di coscienza effettuata all’insegna del più puro e pragmatico realismo. Come in tutti gli umani raggruppamenti, anche tra coloro che detengono le fila dei destini economici e finanziari (oltrechè politici, sic!) del mondo, esistono divisioni, contrasti e differenti visioni sui vari problemi. Ora, è accaduto che, anche all’interno di quelle stesse stanze dei bottoni, qualcuno si è reso conto che quello rappresentato dall’ultra liberismo globale, non è un buon affare, anzi. L’incontrollata e “de-regolata” accelerazione degli scambi economici e finanziari, anziché produrre benessere diffuso, si è fatto fattore di generale immiserimento, causato dalla sempre maggior volatilità ed umoralità dei vari scenari geoeconomici. Il che, se sul momento, può favorire i pochi fortunati detentori del potere economico, nel medio-lungo termine finisce con il rivelarsi dannoso anche per chi quel potere lo detiene, favorendo la crisi dei consumi ed una generale e pericolosa disaffezione verso un certo modello di sviluppo.

Per questo c’è chi, in contrasto con il dettato neo liberista, portato avanti da una consistente parte dei rappresentanti dei Poteri Forti, ha ben pensato di correre ai ripari, prima che “qualcosa” di grave potesse accadere. Pertanto, al di là di vane considerazioni di ordine ideologico e per quanto paradossale ed assurdo questo possa apparire, Trump rappresenta il primo, significativo segnale di stop a quella Globalizzazione, la cui avanzata sembrava sinora irrefrenabile. Stop non significa fine del dominio della Tecno Economia, intendiamoci, bensì un suo significativo cambio di rotta, in direzione di una forma di neo keynesismo adattato ai parametri economici della Post Modernità.

Le dichiarazioni di Trump sull’inutilità della Nato, sulla Brexit, l’apertura di credito alla Russia di Putin, il mutato atteggiamento verso i paesi islamici e la Cina, debbono rappresentare motivi di accurata analisi e riflessione.

Nel bene e nel male, proprio dalla parte da cui mai ci sarebbe aspettata una cosa simile, ora vanno aprendosi nuovi ed inusitati spazi di manovra e di azione. I rappresentanti della burocrazia liberal progressista europea e la corrispettiva lobbie nord americana, si sentono mancare il terreno sotto i piedi. Il loro insulso buonismo, accompagnato al credo in una perenne “deregulation”, economica ed esistenziale, ha cominciato a far acqua da tutte le parti. Immigrazione incontrollata, terrorismo, malattie, suicide politiche demografiche, attraverso una prassi di continuo sabotaggio della famiglia, hanno i giorni contati.

Le opinioni pubbliche di mezzo mondo, cominciano ad averne le scatole piene e reclamano, a sempre più gran voce, un decisivo cambio di rotta. Una consistente fetta delle oligarchie globaliste, per voce di Trump e del suo entourage, hanno saputo sagacemente cogliere questi segnali ed ora cercano di porre un rimedio ai disastri globalisti. Il bello è che, come la Storia ha avuto già modo di insegnarci, nell’andare a sollevare certi veli o a scoperchiare certi vasi di Pandora, si rischia di provocare una serie di incontrollabili reazioni a catena…già è tutto un sussurrare sulla presunta natura di simpatizzanti di “estrema destra” di alcuni uomini della squadra di Trump.

Voci e dicerie di cui qui non vogliamo tenere assolutamente da conto, (rappresentando queste ultime una malintesa interpretazione semantica di determinate posizioni politiche, sic!) ma che, sicuramente, di un dato di fatto rappresentano l’inequivocabile segnale: a partire dalla crisi del 2008, sino ad arrivare alla recente elezione di Trump, tutta una serie di segnali significativi, sono andati intensificandosi, mettendoci dinnanzi al fatto che il liberismo globalista ha probabilmente i giorni contati. Questo potrebbe comportare il profilarsi di inediti scenari di azione per tutte quelle forze politiche che, oggidì, rifacendosi ad istanze di tipo sovranista e identitario, potrebbero cogliere l’occasione per indirizzare decisamente il consenso della pubblica opinione in proprio favore.

Ma anche qui, come in tutte le umane cose, il condizionale è d’obbligo. Come abbiamo già avuto modo di vedere, con il nostrano esempio del Movimento Cinque Stelle, il mal di pancia della gente fine a sé stesso, non basta. Di qualunque malessere o istanza ci si voglia far carico, non si può prescindere dall’aver anzitutto idee chiare ed obiettivi certi, frutto di una determinata visione del mondo, senza la quale qualunque tipo di azione politica finisce con l’essere inficiata e con lo scadere in uno sterile ed improduttivo qualunquismo.

Umberto Bianchi

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