USA alla disperazione – Il declino dell’impero angloamericano e l’emergere dei contendenti

Da almeno cinque anni è in corso una guerra tra gli USA ed i Paesi emergenti una guerra ibrida, fatta di assalti speculativi, terrorismo, sanzioni commerciali, colpi di Stato, propaganda, guerre per procura, contese sul diritto internazionale, etc. etc. Diversi segnali indicano che una potenziale svolta è imminente: se Hillary Clinton dovesse insediarsi alla Casa Bianca, il rischio di un’escalation in Siria e di una conseguente guerra convenzionale contro Mosca, Teheran e, probabilmente, Pechino, si farebbe concreto. Partendo da un classico della teoria delle relazioni tra Stati, “Guerra e mutamento nella politica internazionale” di Robert Gilpin, proviamo ad illustrare perché la guerra tra il declinante impero angloamericano e gli sfidanti emergenti è forse inevitabile, a meno che gli USA, eletto Donald Trump alla Casa Bianca, non scelgano deliberatamente di rinunciare all’egemonia sul sistema internazionale.

Il declino dell’impero angloamericano e l’emergere dei contendenti

Il mondo, dopo la bancarotta di Lehman Brothers e la Grande Recessione da cui gli USA non sono mai usciti (il saggio di risconto della FED è a zero dal 2008, il debito pubblico in continua ascesa ed il numero di americani che usufruiscono del “ Food Stamp Program” si attesta alla cifra record di 46 mln1), è cambiato:agitato, cupo, inquieto.

Si è assistito ad almeno tre grandi onde destabilizzanti (2011, 2014, 2016) che si sono riversate sull’Europa, sull’Asia, sul Nord Africa ed in Sud America, portando con sé terrorismo, assalti speculativi, guerre per procura, sanzioni commerciali, putsch, guerre psicologiche e tanto altro ancora: raccontarle e analizzarle è, in fondo, proprio lo spirito di questo blog.

Sono fenomeni riconducibili a quella guerra ibrida che il declinante impero angloamericano sta combattendo contro i Paesi emergenti (tra cui, per certi aspetti, va annoverata anche la Germania) per difendere la propria egemonia sul sistema internazionale: all’argomento dedicammo già un articolo qualche mese fa, “Guerra senza limiti: breve compendio del conflitto non militare contro Russia e Cina”.

Diversi fattori, come la strisciante deflazione che attanaglia l’Occidente, l’incapacità della FED di alzare i tassi, i rischi di una nuova recessione negli USA con effetti imponderabili, indicano però che il mondo si avvicina ad un punto di svolta: il rischio di una guerra “guerreggiata”, il classico conflitto convenzionale, si fa sempre più concreto. Da sempre, nelle nostre analisi, abbiamo individuato nel Medio Oriente i “Balcani del 1914”, ossia quell’area piuttosto periferica rispetto alle grandi potenze, ma idonea a fungere da innesco per la guerra: le recenti indiscrezioni secondo cui l’amministrazione Obama sta valutando di bombardare l’Esercito Arabo Siriano2, e l’intenzione di Hillary Clinton di intervenire contro l’aviazione di Damasco, se eletta alla Casa Bianca, non fanno che corroborare questi tesi.

Perché una guerra?

Le risposte in circolazione abbondano: “i russi hanno una base navale a Tortosa e la vogliono difendere”, “Israele vuole rovesciare Assad per indebolire Hezbollah e l’Iran”, “gli americani non possono tollerare che il Medio Oriente passi sotto l’influenza russo-iraniana”, etc. etc. Risposte tutte vere, ma parziali: è come asserire che la Prima Guerra Mondiale sia scoppiata per decidere chi tra Vienna e San Pietroburgo dovesse controllare i Balcani. È vero, ma si tratta di un tassello di un mosaico molto più ampio.

Con il presente articolo sposteremo quindi l’analisi a livello di sistema internazionale, cercando di spiegare perché, nell’attuale contesto, la guerra è forse inevitabile e, se non dovesse deflagrare in Siria, potrebbe benissimo farlo in Ucraina, nei Paesi Baltici, nel Golfo Persico, o nel Mar meridionale cinese (come ci furono diversi inneschi alternativi alla Prima ed alla Seconda Guerra Mondiale).

Nell’affrontare il problema ci avvaliamo di un’opera che, sebbene concepita trent’anni fa, è di estrema attualità: “War & Change in World Politics” (Cambridge University Press, 1981, tradotta nel 1989 da Il Mulino col titolo “Guerra e mutamento nella politica internazionale”). Il testo è prezioso per diversi motivi: è un classico della teoria delle relazioni internazionali, è incentrato sul ruolo della guerra nel riequilibrio del sistema internazionale ed il suo autore, Robert Gilpin, è una mente pensante di quell’establihsment atlantico che si sta spendendo per l’elezione di Hillary Clinton alla Casa Bianca (Gilpin, classe 1930, ha insegnato alla Woodrow Wilson School of Public and International Affairs ed è tutt’ora membro del Council on Foreign Relations).

Le opere che trattino del ciclo degli imperi, dell’ascesa e del declino delle potenze, e dell’alternarsi di guerra e pace nella storia, abbondano: tuttavia, l’opera di Gilpin si concentra sulla funzione della guerra nel rapporto tra gli Stati ed, in particolare, nell’evoluzione di questo rapporto.

La guerra, secondo Gilpin, è una fase imprescindibile della dinamica dei sistemi internazionali, che passano costantemente da una situazione di equilibrio ad una di squilibro, man mano che il potere economico, tecnologico e militare migra da una potenza all’altra: la guerra di cui parla Giplin non è quella combattuta per l’espansione di un impero (come quella dell’Afghanistan nel 2001, o dell’Iraq del 2003), ma quella che mette in discussione la gerarchia all’interno del sistema internazionale (come la I e la II Guerra Mondiale e, se dovesse scoppiare, il prossimo conflitto), un sistema internazionale dove la distribuzione vigente del potere non corrisponde più alla reale forze dei singoli attori.

Scrive Gilpin:
“Lo squilibrio nel sistema internazionale è dovuto alla crescente mancanza di corrispondenza tra governo del sistema e redistribuzione del potere all’interno dello stesso. Benché la gerarchia del prestigio, la distribuzione del territorio, le regole del sistema e la divisione internazionale del lavoro continuino a favorire la potenza o le potenze tradizionalmente dominanti, la base di potere se cui si basa il dominio del sistema si è erosa in seguito a livelli differenziati di crescita e di sviluppo tra Stati.Queste differenze tra le parti che compongono il sistema internazionale rappresentano delle sfide per gli Stati dominanti e delle opportunità per quelli emergenti”.

A meno che la potenza dominante in declino, sostiene sempre Gilpin, non rinunci volontariamente all’egemonia (“pare che non esistano esempi di potenza dominante disposta a rinunciare al dominio del sistema internazionale a favore di una potenza emergente per evitare la guerra”, anche se l’elezione alla Casa Bianca di Donald Trump potrebbe rappresentare un’eccezione, proprio come Michail Gorbacev smantellò l’URSS di sua sponte), una guerra che riequilibri il sistema si è sempre verificata.

A questo preciso tipo di conflitto, che mette in discussione la gerarchia del sistema internazionale, è dato un nome, “guerra d’egemonia”:

“La guerra per l’egemonia è dunque il banco di prova definitivo del cambiamento nelle posizioni relative di potere nel sistema esistente. (…) La vittoria o la sconfitta ristabiliscono senza ambiguità la gerarchia di prestigio consona alla nuova distribuzione di potere nel sistema. (…) Per questo motivo le guerre d’egemonia sono conflitti illimitati; sono contemporaneamente guerre politiche, economiche e ideologiche per significato e conseguenze. Sono dirette alla distruzione del sistema politico o economico avversato e sono di solito seguite da una trasformazione religiosa, politica o sociale della società sconfitta. (…) Come ci ha insegnato Tucidide, la posta in gioco nella grande guerra tra Sparta e Atene era l’egemonia sulla Grecia e non le questioni di importanza più limitata che erano oggetto di disputa tra i due Stati.”

Come si arriva ad una guerra per l’egemonia?

Secondo Gilpin il primo passo è il declino della potenza egemone, quella che ha plasmato il sistema internazionale a sua immagine e somiglianza: oggi, ovviamente, è l’impero angloamericano. Le cause della decadenza sono riconducibili a due grandi famiglie: interne ed esterne.

Tra le cause interne troviamo il naturale rallentamento economico di un’economia matura, specie se incentrata sul terziario dove gli aumenti di produttività sono più bassi che negli altri settori; il naturale aumento dei costi della tecnologia militare per difendere l’impero (nota come “legge dell’aumento dei costi di guerra”); la naturale tendenza di una società opulenta ad infiacchirsi ed a perdere le virtù grazie cui ha edificato l’impero; la tendenza di una società matura a pretendere più risorse per sanità, pensioni ed istruzione che, inevitabilmente, non possono essere spese altrove.

Di fronte a spese militari e consumi in ascesa, la potenza egemone è costretta a tagliare gli investimenti produttivi, con la conseguenza di accelerare ulteriormente il proprio declino economico. Il caso degli USA calza a pennello: le spese per la difesa sono più che raddoppiate dalla fine della Guerra Fredda ad oggi, i cittadini che ricevono un programma di assistenza dallo Stato sono più alti che mai e le infrastrutture del Paese, vista la penuria di risorse, si stanno letteralmente sgretolando3.

Tra le cause esterne del declino c’è la perdita del primato militare (i moderni caccia Su-35 sono giudicati equipollenti o superiori agli omologhi americani, mentre i cinesi hanno elaborato missile anti-nave in grado di superare le difese delle portaerei statunitensi), e la naturale tendenza della tecnologia e delle tecniche organizzative a diffondersi nei Paesi periferici che, imitandole, possono godere del cosiddetto “beneficio dell’arretratezza”, crescendo a tassi impensabili per le economie mature. La perdita del primato militare aggrava i costi del mantenimento dell’impero, mentre la perdita del primato economico sottopone l’economia della potenza egemone ad un concorrenza sempre più agguerrita, erodendo la sua base economica. Sotto questo punto di vista il declino degli USA è ad uno stadio più che avanzato, come dimostra la bilancia dei pagamenti: il saldo tra import ed export è in cronico disavanzo e sono i creditori esterni (cinesi, giapponesi, tedeschi, etc) a garantire agli USA i soldi per il mantenimento dell’impero ed il finanziamento dei consumi americani.

Il sistema internazionale, ovviamente, diventa ancora più fragile se la potenza egemone è epicentro di una profonda crisi economica che indebolisce la società, generando instabilità politica e tensioni sociali, e rende ancora più gravoso sostenere le difese imperiali: in questo senso la crisi dei mutui spazzatura e la bancarotta di Lehman Brothers possono essere considerate come la certificazione del declino americano.

Riconosciuta la criticità della situazione, la potenza egemone ha di fronte a sé due strade: aumentare le entrate da destinare al mantenimento dell’impero (ossia più tasse, cioè che fece l’impero Romano di fronte alle invasioni barbariche), oppure ridurre i costi.

Vista l’impopolarità della prima scelta, si imbocca quasi sempre la seconda strada: abbandonare alcune regioni dell’impero (ed ciò che hanno fatto gli angloamericani in Medio Oriente, adottando la strategia della “terra bruciata” e fomentando la guerra tra sciiti e sunniti), chiedere agli alleati di sobbarcarsi più spese militari (vedi la costante richiesta ai membri della NATO di portare il budget della difesa al 2% del PIL),stringere nuove alleanze cooptando potenze minori (vedi l’alleanza economica-militare del TTP-TTIP), fareconcessioni alle potenze sfidanti. Gli USA hanno compiuto qualche timido passo in questo senso (vedi la stiracchiata riforma del FMI a beneficio dei Paesi emergenti) ma, come riconosce Gilpin:

“ il compromesso è in se stesso un indizio di debolezza relativa e di potere in declino, per cui può avere un effetto deleterio sui rapporti con gli alleati ed i rivali. Percependo il declino del loro protettore, gli alleati cercano di raggiungere l’accordo più vantaggioso possibile con la potenza emergente del sistema.”

Il fenomeno è già chiaramente visibile in Medio Oriente, dove Egitto, Iraq ed il governo libico di Tobruk stanno cercando di entrare sotto l’ombrello russo, rendendo così ancora più complicato raggiungere un compromesso con Mosca sul dossier siriano a chi, come l’amministrazione Obama, vuole difendere l’impero.

Aumentare le entrare e tagliare i costi è una ricetta talvolta sufficiente per mantenere l’egemonia, ma, il più delle volte: “lo Stato dominante è incapace di procurarsi risorse supplementari per difendere i suoi impegni vitali; oppure è incapace di ridurre i costi e gli impegni in modo tale da poterli meglio gestire. In tali situazioni, lo squilibrio del sistema si fa sempre più grave, in quanto la potenza in declino cerca di mantenere le sue posizioni e quella in ascesa tenta di trasformare il sistema in modo da favorire i propri interessi. Un persistente squilibrio comporta tensioni, incertezze e crisi nel sistema internazionale. Questa situazione di stallo, però, non dura di solito a lungo”.

Guerra per l’egemonia e mutamento internazionale

Se il sistema internazionale entra in una fase di squilibrio permanente e la gerarchia al suo interno non rispecchia più la reale distribuzione del potere, è solo questione di tempo prima che scoppi quella guerra d’egemonia che ridisegna l’assetto globale. Ad aprire le ostilità possono essere sia le potenze emergenti che lo Stato dominante in declino. Anzi, spesso e volentieri, è proprio la potenza egemone in decadenza che, con una guerra preventiva, decide di indebolire o distruggere lo sfidante finché ha dalla sua parte la superiorità militare:

“Come spiega Tucidide, gli Spartani iniziarono la guerra del Peloponneso nel tentativo di distruggere la nascente potenza ateniese mentre disponevano ancora della capacitò di farlo. Quando si è trattato di scegliere tra il declino o la lotta gli uomini di Stato hanno generalmente optato per la seconda.”

Gilpin individua tre presupposti per lo scoppio di una guerra di egemonia:

L’intensificazione dei conflitti è una conseguenza del restringersi dello spazio e delle opportunità economiche: i mercati sono stati spartiti, il protezionismo sale, la crescita economica langue, i profitti calano, la frizione territoriale aumenta. Il primo presupposto è, ahinoi, fin troppo concreto: deflazione, rischi di una nuova recessione globale, commercio mondiale in caduta, contese territoriali nel Mar meridionale cinese ed in Medio Oriente;

c’è la percezione che si sta verificando un mutamento storico decisivo ed una o più potenze sono convinte che il tempo stia lavorando contro di loro, rendendo opportuno iniziare una guerra preventiva finché si dispone di una certa superiorità. Il secondo presupposto c’è: la globalizzazione, che sembrava la ricetta per trasformare il piombo in oro, è entrata in crisi, le classi dirigenti euro-atlantiche sono più screditate che mai, nei circoli atlantici si parla spesso di “tramonto dell’Occidente”, un discorso già sentito negli anni ’30, c’è stupore per la determinazione con cui Mosca è intervenuta in Medio Oriente ed allarme per la “nuova via della seta” di Pechino;

il corso degli eventi comincia a sfuggire dal controllo umano. Anche il terzo presupposto c’è: in Siria nelle ultime settimane si sta assistendo ad una rapida escalation che ha indotto Mosca a schierare caccia e missili sempre più moderni e Washington a minacciare azioni terroristiche sul suolo russo e l’abbattimento dei caccia nemici.

Quali sono invece le caratteristiche di una guerra per l’egemonia? In cosa si distingue dal tradizionale conflitto limitato?

Sostiene Gilpin:
Il conflitto diventa totale e col tempo vede la partecipazione di tutti gli Stati più e meno importanti del sistema: rigide configurazioni bipolari del potere (Lega delio-attica contro Lega del Peloponneso, Triplice Alleanza contro Triplice Intesa) prefigurano lo scoppio di un conflitto per l’egemonia. Oggi è chiara la configurazione impero angloamericano vs BRICS, NATO vs SCO;
La posta in gioco è fondamentalmente la natura del sistema internazionale: si può dire che ad essere minacciata è la sua legittimità. In questo senso Mosca e Pechino non riconoscono più la legittimità del mondo unipolare a guida statunitense.
I mezzi usati nel conflitto sono illimitati e il teatro della guerra tende ad allargarsi all’intero sistema internazionale: sono le “guerre mondiali”.

Scrive Gilpin: “I momenti di svolta nella storia mondiale sono stati quelli causati da queste lotte per l’egemonia tra potenze rivali. Tali conflitti periodici hanno riordinato il sistema internazionale dando un corso nuovo ed imprevisto alla storia. Essi determinano quale Stato governerà, quali idee e valori s’imporranno dando la loro impronta all’etica delle età successive. L’esito di queste guerre modifica le strutture economiche, sociali ed ideologiche delle singole società e quella del più vasto sistema internazionale.”

A questo punto, qualcuno potrà osservare: nessuna guerra egemonica si è finora combattuta in presenza di armi nucleari che, concretizzando lo scenario di una distruzione totale del sistema internazionale, renderebbero non solo troppo dispendioso, ma addirittura superfluo, un conflitto per l’egemonia. L’opera di Gilpin, scritta nel 1981, affronta già il problema:

“In una situazione di deterrenza reciproca e con un sistema stabile di controllo degli armamenti, una serie di guerre limitate potrebbe servire a mutare il sistema internazionale (…) La tesi secondo la quale le armi nucleari hanno reso impossibili le guerre per l’egemonia o una serie di guerre limitate per mutare il sistema internazionale è destinata a rimanere senza conferma”.

Aggiungiamo noi che le armi nucleari hanno egregiamente assolto il loro principale compito, quello di deterrenza, in un’epoca, la Guerra Fredda, dove il sostanziale interesse strategico di USA ed URSS era il mantenimento dello status quo ed il congelamento del sistema internazionale uscito dalla Seconda Guerra Mondiale.

Le guerre d’egemonia rispondono invece alle inevitabili pulsioni dinamiche del sistema internazionale, alla necessità cioè per gli attori di mutare un assetto che non rispecchia più le reali forze in campo. Possono le stesse armi impiegate per congelare il sistema, essere usate anche anche per cambiarlo? La risposta logica dovrebbe essere “no”, a meno che uno dei due contendenti non sia così irrazionale da cercare l’annichilimento dell’avversario, piuttosto che la sua sconfitta.

Scriviamo nell’ultima parte del 2016 ed una “guerra ibrida” tra l’impero angloamericano declinante e le potenze emergenti è ormai in corso da anni: il quesito è se “la Terza Guerra Mondiale combattuta a pezzi”evolverà o meno nella classica guerra d’egemonia, con il dispiegamento massiccio di uomini e mezzi e l’estensione del fronte a più parti del globo.

Dopo aver letto “Guerra e mutamento nella politica internazionale” , noi rispondiamo di “sì” e quasi certamente è della stessa opinione quell’establishment euro-atlantico che vuole insediare Hillary Clinton alla Casa Bianca. Come ricorda Gilpin, in sistemi internazionali attraversati da acute tensioni, le profezie spesso si auto-avverano.

Federico Dezzani

1http://www.weeklystandard.com/record-high-enrollment-for-food-stamps-46681833/article/654653

2https://www.washingtonpost.com/news/josh-rogin/wp/2016/10/04/obama-administration-considering-strikes-on-assad-again/#comments

3https://www.rt.com/usa/america-infrastructure-us-billion-459/

Twitter: @FedericoDezzan

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