Il futuro impossibile delle pensioni “contributive” che piacciono a Boeri, il pensionista all’americana

Grandi manovre sulle pensioni. Ad agitarsi più di tutti è un “amerikano” di casa nostra, Tito Boeri, da poco più di un anno presidente dell’INPS (di nomina renziana). Boeri è un bocconiano che ha coronato i suoi studi d’economia con un dottorato di ricerca alla New York University; rientrato in patria ed ottenuta una cattedra nell’Ateneo di provenienza, si è illustrato per essere stato il primo docente italiano ad avere introdotto un corso universitario interamente in lingua inglese. Il che sarebbe come a dire che – secondo il bocconiano di ritorno – il diritto allo studio è subordinato alla conoscenza perfetta della lingua dei padroni. Naturalmente, come tanti altri economisti “al passo coi tempi”, il nostro è stato anche consulente del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, dell’OCSE e forse anche di altri organismi internazionali che predicano la macelleria sociale in nome dei mercati e della globalizzazione finanziaria.

Recentemente il Boeri si è dato un gran daffare per spedire ai futuri pensionati la famosa “busta arancione”, un documento contenente una previsione dell’ammontare del trattamento (da fame) che il lavoratore di oggi dovrebbe percepire domani, una volta raggiunta l’agognata “soglia pensionistica”. Una specie di manìa, al punto da indurlo a scatenare una guerra mediatica contro il Parlamento che gli aveva negato i soldi per i francobolli.

Come mai tutto ciò? Per una repentina smania di comunicare? Per un ridondante complesso del postino? Non credo proprio. Credo, piuttosto, che il bocco-newyorkese pensi di utilizzare le reazioni (ovviamente negative) dei destinatari della busta arancione per raggiungere un obiettivo squisitamente politico: assoggettare anche i pensionati di oggi (o comunque una larga fetta di questi) al medesimo infame sistema “contributivo” che dovrebbe determinare le sorti dei pensionati di domani. A meno che – sia detto per inciso – non salti tutto per aria, da qui a pochi anni.

Contrariamente a quanto taluno crede – quindi – quella di Boeri non è una battaglia d’avanguardia né tampoco populista o rivoluzionaria. È invece la classica battaglia di retroguardia, il solito servizievole intervento a pro dei desiderata dei poteri forti e delle “riforme strutturali” invocate dai mercati. Sono stati i poteri forti, i mercati, le banche d’affari e tutta l’onorata compagnia della speculazione finanziaria internazionale a chiederci di cancellare il nostro sistema pensionistico “retributivo” e di adottare il miserabile “sistema contributivo”, quello secondo cui il pensionato riceverà soltanto “quel che ha versato” durante la propria vita lavorativa.
Naturalmente, sento già l’obiezione degli assertori del politicamente corretto: dove sono i soldi per tornare al sistema retributivo? Dovremmo farceli prestare dalle banche, e il nostro debito pubblico è già così alto da non permetterci ulteriori indebitamenti. Obiezione buona per essere giocata su tutte le ruote: dalle spese per l’ambiente a quelle per la sicurezza pubblica.

È proprio questo il nocciolo del problema. A mio sommesso parere, la spesa previdenziale – essendo una spesa istituzionale di fondamentale importanza – dovrebbe essere affrontata dagli Stati con denaro proprio, emesso “a credito” da banche pubbliche “nazionali”, e non ottenuto “a debito” da banche “centrali” o da altre istituzioni private. Certo, se per pagare le pensioni ai suoi cittadini lo Stato italiano (o qualunque altro Stato) dovrà farsi prestare i soldi dalla Banca Centrale Europea (o dalla Goldman Sachs o dalla Banca Rotschild, poco importa), il debito pubblico dovrà necessariamente crescere sempre di più. A meno che – ecco l’infame “riforma strutturale” – lo Stato non si limiti a restituire al pensionato “quel che ha versato”.

Ma neanche questo è sufficiente a far quadrare i conti previdenziali. Perché questa specie di “mettiamo i soldi sotto il mattone” può reggersi soltanto se ci sono un numero x di lavoratori in attività per ogni singolo lavoratore in quiescenza. Meccanismo – questo – che è messo in crisi dalla riduzione delle nascite e dall’aumentata “aspettativa di vita”; ragion per cui in Italia – per esempio – il rapporto fra lavoratori e pensionati si va lentamente ma continuativamente riducendo.

Ecco – dunque – che anche qui gli americani e i loro fan europei ci vengono in soccorso con le loro alzate di genio: facciamo entrare più immigrati, facciamoli diventare cittadini italiani (o tedeschi, o francesi) e utilizziamo i loro contributi previdenziali per pagare le pensioni. Nessuno – fra questi genii dell’economia – che avesse proposto di dare più posti di lavoro ai nostri! I risultati, comunque, sono sotto gli occhi di tutti: in Italia – per esempio – abbiamo 2 milioni e mezzo di lavoratori stranieri che versano regolarmente i contributi, e il Presidente dell’INPS è ancora in cerca dei soldi per i francobolli.

Senza considerare che questo ragionamento – apparentemente fondato – è soltanto una sorta di “catena di Sant’Antonio”. Ammettiamo che oggi ci vogliano 2 milioni di stranieri per pagare le pensioni degli italiani; quando anche costoro saranno diventati pensionati, serviranno 12 milioni di lavoratori stranieri e, dopo un’altra generazione, 22 milioni; e così via. Chiaramente – come tutte le catene di Sant’Antonio – questo sistema è palesemente truffaldino: regge solo fino a quando qualcuno smette di pagare e la catena s’interrompe; ovvero – nel nostro caso – fino a quando avremo raggiunto la completa saturazione di “migranti”.

In realtà – è sempre la mia opinione più eretica che mai – anche questo meccanismo può essere piegato dall’unica scelta logica che oramai è indilazionabile: gli Stati devono riappropriarsi del diritto di creare il proprio denaro e, con questo, fare fronte ai propri còmpiti istituzionali. Compreso quello di assicurare una pensione dignitosa ai propri cittadini.

Michele Rallo – ralmiche@gmail.com

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