Michele Rallo: “La deriva europea verso il modello disumano USA”

Europa alla deriva

C’erano una volta regole di lavoro “normali”, in un’Italia “normale”, in un’Europa “normale”. Queste regole prevedevano che, a conclusione del ciclo degli studi o – per i meno fortunati – ancora prima, i nostri giovani cercassero un lavoro e che, una volta trovatolo (più o meno presto) se lo tenessero ben stretto e, attorno a quel lavoro, iniziassero a costruire la loro vita: che mettessero da parte i primi soldi (e i primi contributi previdenziali), che facessero le prime spese “importanti”, che acquistassero un’auto a rate, che stipulassero un mutuo per un appartamento, che si sposassero, che mettessero al mondo dei figli, che iniziassero a rincorrere qualche modesto “scatto d’anzianità”, e che – in prospettiva – dopo una vita di lavoro, maturassero il diritto ad una pensione decente, tale da non abbassare eccessivamente il loro tenore di vita. Erano regole e ritmi “normali”, comuni più o meno a tutti i paesi dell’Europa occidentale, compresi quelli economicamente meno dotati.

Dopo la caduta del muro di Berlino – però – insieme alla dittatura della globalizzazione economica, ai paesi europei è stato imposto anche di abbracciare lo stile di vita americano. Certo, non siamo ancòra alla demenzialità del sistema yankee, ma abbiamo imboccato con lena la lunga strada della trasformazione della nostra società: abbiamo cominciato a smantellare la sanità pubblica, abbiamo vandalizzato il sistema pensionistico, stiamo vendendo (o svendendo) quel che rimane della nostra fiorente industria di Stato e – ultimo non ultimo – stiamo riscrivendo le regole e il concetto stesso di “lavoro”. Per noi europei, dire “lavoro” significava dire “posto fisso”: intoccabile per i lavoratori dello Stato e degli Enti pubblici, ma da ricercare anche per i dipendenti del settore privato, protetti dalla legge contro i licenziamenti arbitrari e, nel caso di perdita del lavoro a causa di dissesti economici delle aziende di riferimento, “accompagnati” dagli ammortizzatori sociali nella ricerca di un impiego equipollente presso altre imprese. Era il nostro sistema “sociale” (dai finanzieri americani definito sprezzantemente “socialista”) che seguiva l’individuo se non proprio “dalla culla alla bara” – secondo l’invidiato modello svedese – almeno dal primo giorno di lavoro al pensionamento.

Sul “posto fisso” (pubblico o privato, più o meno ambìto, più o meno ben retribuito) si basava la possibilità di disegnare un progetto di vita individuale e/o familiare, programmando spese e calibrando impegni che – protraendosi nel tempo – potevano essere assunti solamente con la sicurezza economica derivante dalla certezza di introiti costanti e regolari: dal semplice acquisto a rate di un elettrodomestico alla stipula di un mutuo ventennale o trentennale per l’acquisto di un appartamento o di una casa al mare. Certezze per le famiglie, dunque; ma certezze pure per le aziende, che nel tempo accumulavano un “capitale umano” ricco di capacità, di abilità e di esperienza. Tutto ciò, però – si badi bene – non aveva riflessi soltanto sul benessere degli individui e sulla salute delle singole imprese, ma “muoveva” una intera economia. Sarebbe stato possibile, senza il “posto fisso”, il boom italiano degli anni ’60? La Ignis, la Indesit avrebbero venduto milioni di frigoriferi e di lavatrici? La Magneti Marelli avrebbe sfornato televisori a getto continuo? E la FIAT – la medesima FIAT che oggi guida la crociata per l’abolizione dell’articolo 18 – avrebbe venduto vagonate di macchine? La stessa “Cinquecento” – concepita per chi poteva permettersi solamente una modesta rata mensile – sarebbe stata inventata? E non è soltanto questo, perché lo sviluppo di un settore fondamentale della nostra economia nazionale, quello dell’edilizia abitativa, non ci sarebbe proprio stato, se gli italiani non avessero potuto contare sul “posto fisso” e quindi sulla possibilità di onorare le rate di un mutuo bancario. E gli stessi mutui non sarebbero stati nemmeno erogati, se le banche (le nostre vecchie e oneste banche così diverse da certe “banche d’affari” globalizzate) non avessero avuto la certezza di incassare le rate in scadenza; certezza – anche questa – legata al reddito “da posto fisso” di chi il mutuo aveva contratto. E potrei continuare così all’infinito, citando i tanti settori dell’indotto legati all’edilizia, ma anche tutti gli altri diversi comparti dell’economia italiana – dall’agricoltura al turismo, dall’abbigliamento all’editorìa e via di sèguito – che nel tempo sono stati alimentati dal flusso costante (ancorché non gigantesco) di danaro proveniente da impiegati e salariati a reddito fisso.

Non è dunque soltanto del “posto fisso” che i sostenitori delle “riforme strutturali” hanno decretato la fine; ma, insieme a questo, anche dell’intera economia italiana ed europea della nostra epoca, cioè addire di quel modello sociale fatto di ragionevoli certezze, di relativa tranquillità economica, di un benessere modesto ma diffuso e tale da garantire anche ai più poveri il minimo vitale. In sua vece ci viene proposto un modello americano di società e, con esso, un modello economico “globalizzato” che genera necessariamente lavoro precario e sempre peggio retribuito: allo scopo di produrre a costi sempre più bassi, per poter competere con la concorrenza planetaria di sistemi industriali che remunerano in misura irrisoria la propria forza-lavoro. In questo sistema, ovviamente, non può esistere il “posto fisso” che ha fatto la fortuna della nostra economia. Perché? Perché questo sistema deve fare la fortuna dell’economia americana, non della nostra. È naturale, dunque, che i nostrani “piccoli fans” di Barak Obama facciano a gara per chi è più bravo ad affossare il concetto stesso di “posto fisso”. Ricordo una memorabile performance televisiva di Mario Monti: «I giovani devono abituarsi all’idea che non avranno un posto fisso per tutta la vita. Del resto, diciamo la verità, che monotonia un posto fisso per tutta la vita!»

Ma il destrorso Torquemada della Bocconi rischia di essere surclassato dal sinistro Boy-scout di Palazzo Strozzi, che vola felice verso il traguardo dell’abolizione dell’articolo 18: via libera – per legge – ai licenziamenti (ai licenziamenti ingiusti, si badi bene) e istituzionalizzazione del modello di lavoro made in USA. Cioè addire, tre anni di lavoro quando si è giovanissimi, poi il licenziamento e la ricerca quotidiana dell’indispensabile per sopravvivere fino all’età della pensione: a 65, a 67, o forse anche a 70 anni. Intanto, a conferma che “posto fisso” ed economia nazionale viaggiano su binari paralleli, in questi giorni i rappresentanti dei grandi gruppi finanziari inglesi e americani sono calati in Italia per comprarsi a prezzi stracciati le industrie private italiane che ancòra “tirano”. Vent’anni fa, sul “Britannia” – lo yacht della Regina Elisabetta – si erano messi d’accordo per papparsi la nostra industria pubblica. Oggi si sono rivisti alla “Four Seasons” di Milano per prendersi anche la nostra industria privata. Per una strana coincidenza, proprio nelle stesse ore il Vispo Tereso sbaragliava i suoi avversari interni alla Direzione nazionale del PD ed otteneva il via libera definitivo per le sue sospirate “riforme”.

Michele Rallo

Michele Rallo

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